La carriera di Jean Rochefort – morto a 87 anni in un ospedale parigino dove era ricoverato dallo scorso agosto – inizia calcando le tavole del palcoscenico. Il giovane Jean – appena ventitreenne – entra infatti in un gruppo che passa alla storia: la «banda del conservatorio». Ne fanno parte, tra gli altri, Jean-Pierre Marielle, Philippe Noiret e Jean Belmondo. Ora, a questa banda è successo quello che è avvenuto a tutta la generazione di bande del cinema del dopoguerra: alcuni (pochi) hanno creato la Nouvelle Vague, altri (molti) sono stati trascinati su dall’onda, altri ancora (i più) sono rimasti fuori. Jean Rochefort fa parte di quest’ultimo gruppo.

Negli anni sessanta ottiene diversi ruoli, per lo più secondari, in film di genere. Si tratta di polizieschi, di film di guerra, o ancora di storie di cappa e spada. Nulla di ignobile, ma un cinema che sembra impermeabile alla tempesta; mentre sui grandi schermi di Parigi passano i primi capolavori di Godard, Rohmer, Chabrol, Resnais. Da subito, il suo fisico asciutto, l’aria seria (che un cappello basta a far diventare ora severa ora ridicola) fanno di J.R. un candidato ideale per ruoli di ufficiale (Le Dimanche de la vie di Jean Herman 1967) o ispettore di polizia (Strana voglia di una vedova di Jacques Poitrenaud 1963, Angelica, 1964), che con alcune (piccole) varianti resteranno delle costanti in tutta la sua carriera.

La gloria arriva negli anni settanta, quando il cineasta Yves Robert inventa per lui uno dei personaggi più celebri, il Colonel Toulouse di Alto, biondo e con 6 matti intorno (1972) e del seguito Alto biondo e…con una scarpa nera (1974). E sarebbe stato perfetto per il ruolo di Don Chisciotte in The Man Who Killed Don Quixote, il film peraltro mai terminato da Terry Gilliam (2000) – come ricorda lo stesso regista in alcune interviste – se problemi di salute non l’avessero costretto a rinunciarvi. Va ovviamente a Gilliam il merito di aver pensato a J.R. per il ruolo del cavaliere che espressione di un tempo e di valori ormai desueti, si inventa una battaglia contro il nulla pur di vivere l’illusione di essere ancora un eroe. Si dirà che oltre che crudele questo giudizio è empiricamente falso: Jean Rocheford ha partecipato ad un cinema autenticamente popolare e, mentre la Nouvelle Vague si esauriva o rientrava nei ranghi o si estremizzava perdendo il suo pubblico, Certi piccolissimi peccati (1976) e La Grande cuisine (1978) riempivano le sale.

Si dirà anche che negli anni settanta e ottanta J.R presta voce e baffi a Luis Buñuel (Il fantasma della libertà, 1974), a Claude Chabrol (Gli innocenti dalle mani sporche, 1974), e a Laszlo Szabo (David Thomas et les autres, 1985). Resta che queste incursioni (notevoli) in un cinema di livello superiore non cambiano il fatto che J.R. è non solo un attore del cinema francese commerciale, ma una delle sue incarnazioni più rappresentative. Nel bene e nel male. Il bene (relativo) è un certo savoir faire di origine essenzialmente teatrale – vale a dire una tendenza perversa nella quale, come è noto, il cinema francese tende ciclicamente a ingolfarsi. Il vero male è quel misto di volgarità e di comicità che sembra essere la ricetta di fondo del cinema popolare francese, e che dà luogo ad un prodotto tranquillamente reazionario.

Jean Rochefort amava molto l’equitazione. Era un uomo affabile; invitato regolarmente negli studi televisivi, li riempiva con la distinzione e il carisma d’un uomo d’altri tempi. Sembra scritto per lui il necrologio che chiude Effetto Notte di Francois Truffaut: «Con lui se ne va un certo modo di fare cinema… Da oggi i film si gireranno in strada, senza sceneggiatura…». Senonché la profezia non si è avverata. Al contrario, i film alla Jean Rocheford hanno continuato a dominare il mercato. Ma il suo charme non gli è sopravvissuto.