Un uomo sta scontando la propria pena nel carcere di Montréal e si racconta ai lettori pagina dopo pagina rivelando così anche i motivi che lo hanno condotto lì: l’origine e il significato del proprio crimine.
Il tempo e i ritmi della prigione, scanditi dal senso di insicurezza per il rischio continuo di aggressioni e violenze, e dalla condivisione di una cella di pochi metri con un bikers affiliato agli Hells Angels, condannato per aver ucciso il membro di una gang rivale, si alternano ai ricordi di una vita intera, alla presenza e al ricordo degli affetti scomparsi o comunque perduti.

DALLA FRANCIA degli anni Sessanta, segnata dall’irrequietezza esistenziale e politica che condurrà ai moti del Maggio parigino, al «grande nord» del Québec, fatto di natura selvaggia e vita dura, come quella trascorsa a lavorare nelle miniere di Amianto, passando per i paesaggi dello Jutland danese, la terra d’origine del padre, dove il Mare del Nord si mescola alle acque del Baltico, la memoria del protagonista è fatta di luoghi e immagini forti che segnano epoche, mondi e, si sarebbe portati a pensare, perfino civiltà differenti. E se il debutto di questa vita si compie intorno a un piccolo cinema d’essai del centro di Tolosa, dove rivolta giovanile e avanguardia culturale si tengono per mano, l’approdo si perde tra i misteri e la magia delle culture amerindiane, in particolare quella degli Algonchini, per i quali vivi e morti convivono e, in realtà, «l’uomo è (solo) un orso che è venuto male».

NON È UN CASO che il Festival della Mente 2020, che si apre domani a Sarzana, dedicato al tema del «sogno», abbia chiesto a Jean-Paul Dubois di presentare in quella sede il suo ultimo romanzo, Non stiamo tutti al mondo allo stesso modo (Ponte alle Grazie, pp. 240, euro 16, traduzione di Francesco Bruno) – l’evento, online, si svolgerà sabato 5 alle 12,45 con la partecipazione dell’autore e di Stefano Montefiori. Lo scrittore francese, che con questo testo si è aggiudicato nel 2019 il prestigioso premio Goncourt, è infatti solito costruire degli ampi tableau nei quali, spesso con amara ironia e sguardo disincantato, descrive le promesse che i suoi personaggi hanno fatto a se stessi e che talvolta riescono perfino a mantenere.

LA SUA VASTA OPERA, oltre una ventina di romanzi, con qualche irruzione nel polar e nella saggistica lungo una carriera iniziata già alla fine degli anni Ottanta che lo hanno reso una figura centrale, anche se dallo spirito decisamente schivo, nella narrativa d’oltralpe, descrive perciò una sorta di «terra del sogno» dove le sconfitte e le umiliazioni sono certo dolorose ma non sembrano domare fino in fondo i protagonisti.

Considerato tra i più «americani» tra gli scrittori francesi delle ultime generazioni, Updike, McCarthy e Bukowski i «maestri» cui la critica transalpina lo ha spesso avvicinato, Dubois ha raccontato pagine di storia nazionale, su tutti la figura di De Gaulle, o grandi eventi impressi nell’immaginario collettivo, come la saga e la morte di John Kennedy, pescando esplicitamente anche tra i rimandi cinematografici e una certa atmosfera noir, finendo per lasciar intravedere, oltre l’annuncio della fine, come pure accade in questo nuovo romanzo, anche una pallida luce profilarsi all’orizzonte.