Jean-Luc Nancy ha lasciato un altro profondo vuoto nel mondo della filosofia. Professore di filosofia all’Università di Strasburgo, dove ha insegnato dal ‘68 al 2004, è stato anche direttore di un noto programma di Ricerca all’International College of Philosophy tra il 1985 e il 1989; si è formato con Jacques Derrida, che ha esercitato, per tutta la vita, un’influenza decisiva sul suo pensiero, e anche con Philippe Lacoue-Labarthe a cui era molto legato – hanno anche vissuto insieme in una comune nei primi anni ’70.

I tre intellettuali son stati soprattutto amici, ma anche ideatori di un rinnovamento del pensiero filosofico e della scrittura legata alla filosofia, con importanti pagine sui limiti della democrazia, sul corpo, sulla giustizia, sul linguaggio. Derrida gli dedicò, a sua volta, anche un libro, dal titolo Le Toucher.
Jean-Luc Nancy (Galileo, 2000). Ha scritto diversi volumi con lui e con Lacoue-Labarthe, in particolare L’Absolu littéraire (Le Seuil, 1978) e Le Mythe nazi (L’Aube, 1991).

Intervistato per l’Università Lumsa di Roma, alcuni mesi dopo il convegno dedicato alla giornata della filosofia e promosso dal gruppo di Ricerca Amica Sofia, in collaborazione col noto storico della filosofia medievale Onorato Grassi, e in relazione al tema «Filosofia e bambini», rilasciò interessanti riflessioni. Queste riflessioni oggi sono indirizzate in particolare agli insegnanti e ai genitori, partendo dalla complessità dell’ «io» in età preadolescenziale. Dal convegno di novembre, all’intervista di fine aprile, sembrava esser cambiato un mondo, un mondo vecchio.

Chi sono i bambini e perché, sin dal mondo medievale, l’approccio con loro è così facile e difficile al tempo stesso, da spaventarci perfino? Forse di loro ci impaurisce la sfera del «non ancora», cui appartengono con assoluta eccezionalità e con enorme vantaggio creativo?
Mi apri un mondo, in questa domanda e non posso ignorare quel discorso fatto all’Ospedale «Bambin Gesù» di Roma con il gruppo Tlon. In quell’occasione mi avevi mandato il tuo vecchio pezzo Prendiamola con filosofia (per Il Sole 24 Ore) e avevo condiviso gran parte delle tue parole, ma qualcosa mi sembrava sfuggisse, anche nel tuo articolo. Forse eri troppo fiduciosa nella scienza, invece i bambini ci mettono davanti le nostre debolezze, il nostro pensiero fragile e ci mettono davanti, come dissi allora, al fatto che non c’è un piano B, o per meglio dire, non c’è sempre un piano B. Spesso siamo in balia di un corpo che non sa dove rifugiarsi. Ricordi il film Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana? I bambini ci stimolano queste riflessioni e questo, al di là del noto immaginario filosofico medievale, ci spaventa. Loro, più bassi di noi, senza denti a volte e con scarso senso dell’orientamento, ne sanno più di noi. E come lo abbiamo capito che ne sanno più di noi? Lo dicono ovunque: il virus ha rivelato enormi fragilità in noi tutti, soprattutto nel sistema capitalistico, che ora fa i conti con gli anni ruggenti o meglio con gli anni selvaggi. Il virus, per dirla con Gérard Bensuassan, il capitalismo. I bambini non te lo dicono di certo in questi termini, ma non hanno avuto neanche bisogno del virus per queste considerazioni implicite. Noi sì.

Implicite? Dice che non sono appunto coscienti di questa fragilità?
Quando sei nato, non puoi più nasconderti, ripeto, neanche dalle fragilità. Partendo da questa brusca e violenta esposizione, i bambini si trovano impotenti e si affidano. Poi crescendo, con la scuola che instaura il dispotismo del primeggiare a ogni costo e dell’auto-affermazione, questo senso di affidamento si perde e crediamo di poter spiegare tutto, persino che cosa sia il giusto o l’ingiusto per i più piccoli.

Nell’indagine sulla costituzione ontologica dell’esser-ci («Dasein»), secondo lei, che si rifà a Heidegger, si scopre l’originalità dell’essere-con (il concetto di «Mit-sein»). Si coglie così pienamente l’idea di «cum-tactum», dell’essere con-l’altro e con-gli altri. Dopo il ’68, dopo alcune scelte personali anche molto audaci in termini di relazioni private, il suo pensiero seppe presentarsi sempre come un pensiero di rottura rispetto a molti elementi filosofici, per esempio quello di comunità. Come si pone, su questo, il bisogno dell’altro, che spontaneamente avvertono i bambini?
I bambini vivono del cum tactum con la madre e il bambino che non realizzerà, fino in fondo, questo cum, sarà sempre un adulto disorientato, ma sarà anche un adulto che si trascinerà nel mondo degli adulti quella fragilità dell’essere, che alcuni, superbamente e ridicolamente, dimenticano, nel delirio dell’esser grandi, dell’esser forti. Quando mettiamo da parte questo delirio, scopriamo quel che sapevano: che il mondo è regolato dal caos, ma l’uomo fa la differenza quando esercita il concetto di uguaglianza. Un concetto del tutto innaturale da adulti. Non sto dicendo che i bambini sanno tutto del concetto di uguaglianza, ma, col loro senso di affidamento all’adulto, sanno che questi garantirà loro perlomeno una giustizia paritaria, un riequilibro delle forze, di cui loro son carenti.

Ma quella non è uguaglianza, secondo me. È solo parità di forze e non di diritti. I bambini non chiedono uguaglianza di diritti, ma affidamento a forze maggiori, tutelanti, protettive, spesso anche asimmetriche.
Sì, ma sono i bambini a metterci nell’ottica di un mondo tutelante, altrimenti noi saremmo capaci solo di pensare alla giustizia al singolare.

Ma i bambini chiedono giustizia al singolare! Giustizia solo per loro stessi in un frangente limitato di tempo.

Eh no! I bambini chiedono che si limiti l’ingiusto per tutti. Siamo noi che vogliamo indirizzarli verso l’individualismo, ma loro sono ben consapevoli che le condizioni elementari di vita devono essere equilibrate per loro, per il loro compagno di banco, per la cuginetta, per l’altra figlia di papà con l’altra mamma e via dicendo.

Mettiamola ironicamente allora. I bambini, potendo, sarebbero di sinistra.

Un po’ sì e un po’ no. Senza estremismi legati alla destra o alla sinistra. Perché entrambe le posizioni vanno dietro a un mondo che mostri giustizia. Invece la giustizia non va mostrata, come ho già detto in altre occasioni. È un fatto naturale. Ovviamente però, a sinistra, l’idea di giustizia è qualcosa da attuare. Allora sì… I bambini son di sinistra, anche perché hanno una visione del mondo che va oltre, che riesca a sfociare nel «non ancora», che sappia di futuro. Prima ci libereremo del virus del capitalismo, svelato nella sua pochezza del virus sanitario, e prima riusciremo a comprendere che cosa modificare su questo Pianeta, mettendoci in quell’ottica di sinistra legata al concetto di infanzia.

E il bambino Nancy che cosa voleva modificare?
Le stesse cose che voglio modificare oggi, perché il filosofo, per esser tale, non ha bisogno di andare in cattedra, ma ha bisogno di mantenere lo sguardo bambino, primordiale, viscerale, aperto, privo di strutture, ma anche di sottostrutture familiari e di sovrastrutture sociali. Come dissi a Simone, una bambina, bisogna intuire la differenza fra il giusto morale e il giusto nel senso dell’esattezza. Il giusto morale è da perseguire, l’esattezza può anche venir meno, ammesso che esista. Quando diciamo: Voglio percorsrere un metro giusto giusto, non stiamo affatto parlando di giustizia. Questo processo accompagna noi tutti fino alle porte della pre-adolescenza. Poi, in adolescenza, coltiviamo naturalmente il giusto morale, anche quando decidiamo di abbandonarlo per seguire il pensiero del corpo, con il suo concetto intrinseco di «differenza». Dare corpo alla differenza, sin da adolescenti, è il primo gradino per il decostruzionismo filosofico. L’adolescente, a differenza del bambino e del suo senso di uguaglianza e di affidamento, va in cerca del senso del mondo e il mondo, per lui, ha senso nella fisicità e soprattutto nel desiderio. In questo si realizza la scissione fra il mondo bambino e il mondo adolescente. Dove sta il vero? Nel mezzo, come spesso accade. Ogni bambino rimette al mondo il mondo (questo è il suo vero processo filosofico) e poi ogni adolescente dà a quel bambino la possibilità di accantonare il cum tactum con la madre e affidarsi al contatto dei sensi con l’estraneo o l’estranea. È un processo difficilissimo quello dei sensi, che spesso fatica a realizzarsi anche da adulti. Rischiamo di restare analfabeti sensuali se non affrontiamo la scissione bambino-adolescente.