Uno dei suoi ultimi libri, Une terrasse en Algérie, è una sorta di documentario. Usando solo la penna e la memoria, Jean-Louis Comolli – morto giovedi nella sua casa parigina a 80 anni – «filma» un luogo e un momento della sua giovinezza: «Ci ritrovavamo ogni sera alla terrazza dell’Excelsior. Avevamo quindici anni. L’Algeria era ancora una colonia francese, ma la guerra, con il nome di pacificazione, era entrata in scena, spazzando il sogno di Albert Camus di un’unione libera tra algerini ed europei. La prima azione di massa del Fnl ebbe luogo il 25 agosto del 1955 a Philippeville, dove sono nato. La città bassa fu invasa dagli abitanti delle alture, arabi e berberi. Inquadrati da alcuni militanti del FLN, erano armati di falci, di picconi, di asce – raramente di fucili. Più di cento europei furono uccisi. La repressione, diretta dal colonnello Aussaresses, fu terribile: i mitragliatori si abbatterono senza criterio su migliaia di prigionieri nello stadio della città. Io l’ho appreso solo più tardi. Quel giorno, mi trovavo a soli tre chilometri da Philippeville, sulla spiaggia di Stora. Ignoravamo tutto della guerra civile. La radio, i giornali, parlavano di ribelli. I miei amici dell’Excelsior erano ciechi e sordi, come me. Regnava il diniego. Il mare era bello, eravamo ebbri di vita, e tanto peggio se tutto era falso nell’Algeria coloniale».

Nato da genitori d’origini italiane, Comolli ha solo vent’anni quando arriva a Parigi. Passa le sue giornate alla Cinémathèque, che allora ha sede nel palais de Chaillot e si mescola rapidamente al gruppo dei cinefili che come una setta non perde una proiezione. Incontra André Labarthe, Jean Eustache, Jean Douchet; è quest’ultimo, che all’epoca è il braccio destro di Eric Rohmer alla redazione dei Cahiers du cinéma, a proporgli di scrivere.

I primi testi di Comolli sono pieni di quell’entusiasmo per il cinema classico hollywoodiano, ormai un po’ rancido, tipico dell’ultimo periodo dei Cahiers «jaunes» (1951-62).

La prima generazione dei Cahiers è già tutta o quasi dietro la macchina da presa, a parte Rohmer che dopo il flop di Le Signe du Lion (1959) si è dedicato interamente alla rivista.

Tra i redattori, una lotta sotterranea oppone i conservatori da un lato, per i quali i cineasti più importanti restano Ford, Fuller, Lang, Sirk, e i progressisti dall’altro, che vorrebbero aprire la rivista all’onda lunga della Nouvelle Vague in Europa e in Asia. Comolli si ritrova in un primo momento tra i conservatori. Ma, quando a Rivette riesce il putsch contro Rohmer, passa dalla parte dei giovani e diventa uno dei protagonisti dello svecchiamento. Nel 1966, insieme a Jean Narboni, prende la testa della rivista.

Ha cercato di interrogarsi su ogni tipo di immagine in movimento, come un fenomeno unico e unitario, arrivando per esempio a confrontare i video di Daesh e il cinema hollywoodiano

C’È, AL DI LÀ della Francia e degli Stati uniti, tutto un mondo cinematografico da scoprire e i Cahiers di Comolli ne diventano i cartografi. Parallelamente, inizia la politicizzazione della rivista. I Cahiers partono da lontano, da un’idea asociale e apolitica della critica, per cui la forma prevale sul contenuto.

L’essenza di questo principio non verrà messa in dubbio (i Cahiers non difenderanno mai un cineasta mediocre col pretesto che i suoi film mettono in scena un soggetto condivisibile) ma dovrà in qualche modo conciliarsi con la radicalità politica di quegli anni.

L’armatura teorica di questo incontro tra estetica e politica non cade dall’altro, ma si costruisce attraverso il dialogo con alcuni cineasti, in particolare con Jean-Luc Godard.

Ha sempre portato avanti l’idea che la politica nel cinema deve essere pensata come un problema di regia.

ALL’USCITA de La Chinoise (1967) Comolli scrive: «Le immagini non descrivono una realtà e neppure una finzione politica, esse sono questa realtà o questa finzione; o per meglio dire la costituiscono. La forma in Godard viene prima della formulazione. Così, lungi dal dirigere La Chinoise, la politica nasce al suo interno e si sviluppa in esso allo stesso modo delle altre avventure formali». Così come la generazione precedente, con politica degli autori, aveva moralizzato l’immagine, Comolli e Narboni si trovano a politicizzare la forma. Vasto programma, che non ha mai affaticato Comolli.

Ben oltre l’avventura dei Cahiers, che si chiude per lui nel 1973, Comolli ha, fino all’ultimo libro (Une certaine tendance du cinéma documentaire, 2021) portato avanti l’idea che la politica nel cinema deve essere pensata come un problema di regia. E il compito non è solo teorico. A ridosso del 1968, Comolli inizia la sua carriera di cineasta. Insieme all’amico André Labarthe, realizza Le due Marsigliesi – una viva reazione al ritorno in forza di De Gaulle sulla scena politica e alla disastrosa sconfitta elettorale delle sinistre dopo il Maggio.

Dieci anni dopo, gira uno dei suoi film più noti, una finzione dal titolo La Cecilia. La storia è quella di un gruppo di anarchici che, dopo una scissione, decidono di creare un’utopia in Brasile. Nel film c’è quasi tutto Comolli: la speranza e la passione politica, il tema del colonialismo, la sconfitta. Soprattutto, come nota Serge Daney, c’è l’idea che, anche se l’impresa è prevedibilmente destinata a fallire, nessuno ha il diritto di dire: lo sapevo che finiva così.

Anche nella produzione teorica di Comolli questa frase non ha senso. Nel periodo in cui al cinema proiettato in sala cominciavano ad affiancarsi altri tipi di immagini, Comolli si è rifiutato di costruire delle barriere. Ha cercato invece di interrogarsi su ogni tipo di immagine in movimento, come un fenomeno unico e unitario, arrivando per esempio a confrontare i video di Daesh e il cinema hollywoodiano (Daesh, le cinéma et la mort, 2016).

È vero che, nel vivo delle sue riflessioni, gli è capitato di giungere a delle conclusioni paradossali – producendo dei concetti più utili a giustificare il suo disprezzo per il cinema contemporaneo – segnatamente hollywoodiano – che a coglierne la specificità. Ma è ancor più vero che il suo sforzo, pratico e teorico, è la più viva testimonianza di come una generazione di cinefili abbia consacrato la propria esistenza a tener fede all’imperativo lasciato loro in eredità da Herny Langlois : il cinema è quest’arte ancora tutta da scoprire.