Di Jean Genet, scrittore e reietto che nell’abiezione trovò l’ascesi – tanto che Sartre lo ribattezzò Santo Genet – si potrebbe dire che è stata una figura funambolica, in bilico tra spinte antisociali e impegno politico, tra distruzione e reinvenzione della società, della lingua francese, degli affetti… se non fosse che la metafora è infelice. Infatti, la relazione amorosa forse più intensa e di sicuro più tragica dello scrittore fu quella che intrecciò dal 1955 con Abdallah Bentaga, un acrobata di trent’anni più giovane, morto suicida il 12 marzo 1964. Dopo quel gesto disperato, Genet comunica agli amici di non voler più scrivere. Nel momento in cui le sue pièce, in particolare Le serve e I paraventi, girano il mondo, lui rinuncia alla ribalta letteraria. Poi, nel maggio 1967, viene trovato incosciente in una camera d’albergo a Domodossola dopo aver tentato a sua volta il suicidio ingerendo una forte dose di Nembutal. Ma si salva e ricomincia a viaggiare con alcune inseparabili valigie destinate a diventare leggendarie. E il cui contenuto ci è oggi finalmente rivelato.

A RIMETTERLO AL MONDO, negli anni della contestazione giovanile, è la scoperta del Giappone, sono le cause dei movimenti studenteschi che lo sollecitano e vivificano. Nel 1968 vola negli Stati Uniti per conto di Esquire che gli commissiona un reportage sulle manifestazioni pacifiste. Iniziano così gli anni della militanza antimperialista che lo porteranno per lunghi periodi a fianco delle Black Panthers e della rivoluzione palestinese in Medioriente. La presa di distanza dal mondo editoriale non gli impedisce di tenere conferenze e pubblicare articoli. Ma c’è anche dell’altro. Il «mito del silenzio» di Genet trova ora la sua smentita definitiva nel contenuto delle due valigie, una di cuoio nero e l’altra di skaï marrone, che accompagnarono le peregrinazioni del «voleur» negli ultimi vent’anni della sua vita. Dieci giorni prima di morire, nel 1986, lo scrittore le affidò all’avvocato e confidente Roland Dumas che solo di recente ha deciso di cederle all’IMEC (Institut Mémoires de l’édition contemporaine littéraire).

SU INIZIATIVA del suo direttore letterario Albert Dichy, studioso di Genet, l’istituto ha organizzato le carte e le ha presentate in una mostra e in un volume intitolati Les Valises de Jean Genet. Rompre, Disparaître, Écrire. La mostra ha avuto solo il tempo di inaugurare a fine ottobre per essere subito costretta alla chiusura dalle misure anticovid. Il chiostro presso Caen dove ha sede l’istituto con tutti i suoi appassionanti fondi archivistici – da Colette a Fanon, da Violette Leduc a Irène Némirovsky, da Baudrillard a Rohmer – potrebbe riaprire le porte in primavera, ma, al momento è possibile procurarsi il libro, il che non è poco.
Si tratta di un’opera a sé, ricca di immagini e trascrizioni di documenti, porta aperta sull’«atelier portatile» di un artista nomade, testimonianza della «lotta tra uno scrittore che non vuole più scrivere e la scrittura che prende il sopravvento». Come spiega Dichy, infatti, «per circa vent’anni, da una camera d’albergo all’altra, dal campo profughi di Chatila alla Goutte-d’Or, dai ghetti neri americani alla cittadina di Larache in Marocco, Genet raccoglie e porta con sé i materiali di un’opera sognata a cui consegna tutta la sua vita, dalla giovinezza perduta alle ultime peripezie politiche».

COME NEI SUOI LIBRI, l’autore di Notre-Dame-des-Fleurs in quelle valigie mescola tutto, vita e arte. Ci sono conti, false prescrizioni di Nembutal, indirizzi e numeri di telefono – Huey Newton, James Baldwin, Jane Fonda, Foucault, Derrida – ricevute degli alberghi in cui viveva da senza fissa dimora, volantini di alcune conferenze tenute negli USA e qualche lettera scelta, ricevuta o inviata, come quella con cui risponde a Roland Dumas che gli chiedeva di aiutarlo a comprendere il movente di una coppia di ladri omicidi di cui doveva garantire la difesa, un vero e proprio saggio sulla sovversione dell’ordine sociale. E poi ci sono gli appunti scribacchiati su ogni pezzo di carta utile, dal frammento di giornale alla bustina di zucchero, aforismi, citazioni, pro-memoria, frasi o passi interi scritti con in mente un progetto. «Non esiste virilità al di fuori di questa: la traccia nera sulla nazione bianca. E la donna nera contribuisce a questa traccia» appunta su un foglio volante e sedici anni dopo, questa sentenza, modificata, sembra trasparire in filigrana da un passo dell’opera postuma Un captif amoureux (1986): «i Neri erano i caratteri sul foglio bianco dell’America».

L’EX LADRO che ha tradito il carcere e la miseria per scrivere, ha con la scrittura un rapporto conflittuale: «Quando? A che punto? Secondo una traiettoria che sembrava infrangibile avrei dovuto proseguire la mia vita di miseria, di furto quanto meno, forse di omicidio e magari di ergastolo – o anche di più. Questa traiettoria sembra essersi infranta. Ed è questo che mi ha sottratto l’innocenza. Ho commesso il crimine di sfuggire al crimine, di sfuggire alle persecuzioni e ai rischi conseguenti. Ho detto chi sono invece di vivere, e dicendo chi sono, non lo sono più stato. Irrecuperabile».
Lui che in un’intervista dichiarava di aver iniziato a scrivere in carcere per poterne uscire, quando è libero sente che l’editoria è una compromissione con una società che rifiuta perché da essa è stato rifiutato in quanto figlio illegittimo, povero e pederasta. Ma rinunciare a pubblicare non significa smettere di scrivere, anzi usare la parola in aiuto ai «dannati della terra» è forse per Genet una forma di riscatto.

IL VOLUME DI DICHY organizza per capitoli quanto emerge da queste valigie di Ali Baba: riflessioni sulla pena capitale, sul rifiuto della triade lavoro-patria-famiglia, sul sogno rivoluzionario, sull’intreccio di passione poetica e politica che lo attrae alla causa palestinese, pagine in cui razionalizza il sostegno ai Black Panthers ma ne critica il gergo perentorio e il gusto esacerbato per la protesta spettacolare. Ci sono le bozze con le versioni de La Sentence, meditazione su crimini, sanzioni e tortura che Gallimard ha dato alle stampe nel 2010 e un testo relativamente compiuto del 1978 intitolato La lumière et l’ombre in parte confluito nel Captif amoureux.
In un articolo sul Nouvel Observateur, François Reynaert che fu il primo cronista a recarsi all’alberghetto dove Genet fu ritrovato senza vita il 15 aprile 1986, ha rievocato l’emozione di quel giorno in cui rischiò di ritrovarsi per le mani una terza valigia. L’albergatore non vedeva l’ora di disfarsi delle tracce dello scandalo, lo invitò a prendersi i libri rimasti al capezzale e poi attirò la sua attenzione su un piccolo bagaglio. Lo aprirono insieme e quel che ne venne fuori fu un manoscritto: «Non posso prenderlo, è troppo importante» e chiamò l’editore di Genet. Gallimard era già al corrente e Le Captif amourex uscirà di lì a poco, postumo, secondo la volontà dell’autore.

DI QUELLE VALIGIE, tra i cultori dello scrittore, si è favoleggiato a lungo e ben pochi, oltre a Dichy, avevano finora avuto il privilegio di esplorarne il contenuto. Tra questi, qualche anno fa, Marguerite Vappereau, amica di famiglia di Dumas, autrice di una tesi di dottorato in storia del cinema intitolata Jean Genet, la tentation du cinéma. Ben due, infatti, le sceneggiature inedite che il regista di Un chant d’amour conservava in questi scrigni: La Nuit venue, scritta tra il ’76 e il ’78, racconta di un giovane marocchino che, disgustato da un episodio di razzismo subito sul treno che lo porta in Francia, torna in patria prima di raggiungere la meta.
Ma la chicca è Divine, scritta nel 1975 su richiesta di David Bowie e del produttore Christopher Stamp, fratello dell’attore Terence. Si tratta di una rilettura del romanzo d’esordio Notre-Dame-des-Fleurs, ambientata tra l’Occupazione e la Liberazione e incentrata sul mito di Divine, personaggio di folle che Bowie avrebbe voluto interpretare. Un vero oggetto del desiderio inesaudito destinato a rimanere tale per sempre.