Una star della musica pop, il leader supremo Kim-gon jun, un ex rapinatore di banche, un generale dei servizi segreti francesi in pensione: cosa hanno in comune questi rappresentanti incongrui di una umanità per giunta eccessiva, eccentrica, strutturalmente «altra»? Hanno in comune un romanzo, Inviata speciale, l’ultimo di Jean Echenoz, uscito in questi giorni in Italia nella bella traduzione di Federica e Lorenza Di Lella (Adelphi, pp.248,  euro 18,00). Dopo quasi quarant’anni, Echenoz torna ai suoi primi amori letterari con una storia di spionaggio, un testo a orologeria i cui ingranaggi prendono a ruotare, incastrandosi uno sull’altro, con il progressivo dispiegarsi di una narrazione complessa, costruita su un enigma (un rapimento) di cui fino all’ultimo non si conosceranno bene i motivi.

Dalla scomparsa improvvisa di una donna in una Parigi satura di oggetti e di pioggia, parte infatti una storia apparentemente caotica, il cui disegno armonico si costruirà strada facendo, illuminando il testo retrospettivamente, come a rimandare il senso a un continuo e rinnovato inizio. Un po’ come succede per la carriera di uno scrittore, i cui libri, solo nel momento di quella «maturità» che Benjamin chiamerebbe «postuma» – ovvero una volta tradotti, messi uno in fila all’altro e collocati all’interno di una tradizione – rivelano una coerenza e un disegno fino ad allora sommersi.

Già dalle prime righe di «Inviata speciale» sembra evidente che la sua scrittura ha ancora una volta mutato orientamento. «’14» era un romanzo storico, la trilogia «Ravel», «Correre», «Lampi» si muoveva sul terreno della fiction biografica, mentre adesso siamo in piena spy story, con un intrigo internazionale che ci riporta ai suoi primi testi polizieschi, «Cherokee» o «Le biondone». Non le sembra di essere perennemente in fuga da sé?
Non lo decido a priori, ma ogni volta che termino un romanzo provo il bisogno radicale di sconfessare quanto ho appena fatto per andare in una direzione completamente diversa. Sento sempre un richiamo molto forte verso tutto ciò che non conosco e la noia, del resto, mi impedisce di continuare a scrivere cose troppo simili tra loro. Anche il caso ha una parte molto importante nell’andamento della mia scrittura. Al tempo in cui scrissi Ravel, ad esempio, ricordo che (avevo appena pubblicato Al pianoforte) mi era diventato insopportabile lavorare sulla fiction pura. Concluso quel romanzo, la scrittura d’invenzione era diventata per me un serbatoio completamente esaurito e mi ero anche stufato di scrivere testi che riguardassero un mondo a me contemporaneo. Avevo bisogno di cambiare aria, di guardare a epoche passate, lontane. Ho iniziato a pensare agli anni Trenta come possibile nuova ambientazione e ho abbozzato un progetto in cui comparissero anche personaggi reali della cultura del tempo, che avrebbero dovuto inserirsi nel testo come pure comparse, niente più che silhouettes sfuggenti. Tra questi personaggi-comparse c’era anche Ravel. Conoscevo bene la sua musica, conoscevo la sua casa, mi sembrava un personaggio facile da inserire all’interno di una storia. Ho cominciato a fare ricerche, mi sono messo a leggere biografie, studi, carteggi, alla fine è diventata una sorta di ossessione e questo personaggio ha preso sempre più spessore fino a stravolgere completamente il mio progetto inziale e a divorare tutto il testo.

Sembra che nella scrittura a cui lei di volta in volta si affida ci sia una volontà di affermazione del genere che ha scelto, e nello stesso tempo, una altrettanto evidente volontà di sabotarlo. Non c’è cliché letterario del genere spionistico che non venga rispettato in «Inviata speciale», eppure fin dalle prime pagine una voce fuori campo (l’autore stesso?) si rivolge al pubblico, commenta le scene, scardina il patto di verità con il lettore creando un controcanto ironico che svela e nello stesso tempo distrugge la stessa struttura narrativa che lo sostiene.
Il fatto è che ho bisogno di inserire continui interventi ironici, è un bisogno radicale, profondo, necessario alla mia scrittura. La mia non è una ironia derisoria, il mio ridere dei personaggi e della storia non contiene nessuna punta di disprezzo, rappresenta semplicemente il bisogno di mettere una distanza tra me e la mia scrittura: è l’elemento che consente uno scarto tra autore e testo, ridistribuendo i pesi e gli equilibri all’interno della pagina.

Ciò di cui parla ricorda certi grandi marionettisti letterari di Sette e Ottocento (Diderot e Hoffmann, per esempio) quando mostrano i fili che stanno reggendo nella mano.
Sì, assolutamente. I miei autori più amati, Diderot, Proust, Nabokov, Kafka, Flaubert, ridono spesso con il mio stesso modo di ridere, ovvero mostrando la scrittura nel suo stesso farsi, come se una telecamera inquadrasse un’altra telecamera nell’atto di riprendere una scena e rivelasse questo gioco di specchi al pubblico.

Di fronte a questo autore ironico, lucidissimo, i personaggi sembrano soffrire di una debolezza strutturale che li porta fin quasi sulla soglia della bidimensionalità. In «Inviata speciale» Constance, Lou Tausk, Paul Objat sono puri clichés letterari o cinematografici, semplici attanti, ingranaggi all’interno di un meccanismo di trama estremamente articolato e complesso.
Sì, è vero, ho poca considerazione della psicologia dei personaggi. Mi serve mantenere in loro questa «debolezza» perché così mi è più facile manipolarli e fargli fare tutto quello che voglio. Nel caso di Inviata speciale avevo predisposto, in più, un intreccio particolarmente complesso e quindi i personaggi dovevano essere per forza malleabili, estremamente duttili.

Con Ravel non è andata così, però.
Ravel è un personaggio misterioso. Ho passato mesi a leggere qualsiasi cosa fosse stata pubblicata su di lui e più avevo l’impressione di arrivare finalmente a capirlo, più ogni volta questa comprensione mi sgusciava tra le mani per andare a posarsi più in là. In quest’uomo c’è una componente clinica, di malattia vera e propria, che probabilmente gli ha lasciato ampi margini di incongruenza, un’ambiguità profonda. È anche vero, poi, che le tre volte in cui mi sono occupato di riprodurre personaggi realmente esistiti (Ravel, Zátopek, Tesla) ho sentito una certa resistenza da parte di queste «persone» a lasciarsi manipolare con la stessa facilità con cui sono abituato a dirigere i miei personaggi inventati.

In molti dei suoi testi c’è una attenzione quasi maniacale agli oggetti. La Parigi su cui si apre «Inviata speciale» è un mondo alla Perec, una lista interminabile di «cose», di materiali, di forme.
Dal momento che non riservo molta attenzione alla psicologia dei personaggi e non sono troppo attratto da quanto succede nella loro testa, gli oggetti mi servono da «marcatori» della loro caratterizzazione, contribuiscono a definirne l’identità. Anzi, per me gli oggetti sono a loro volta personaggi, e la cosa vale ancora di più per i luoghi (di cui gli oggetti non sono altro che la dispersione parcellizzata). Per i miei romanzi non parto quasi mai da una sceneggiatura, ho qualche idea molto generale sulla storia, ma niente di più. Perché la narrazione prenda avvio ho bisogno di un luogo. Per Inviata speciale sono partito dal cimitero di Passy: un giorno camminavo in quel quartiere, sono entrato per la prima volta nel cimitero e mi sono detto «ecco, questo è un posto per me».

Oltre a Parigi, nel testo ci sono altri due luoghi: la casa nella campagna profonda della Creuse, dove i rapitori nascondono per mesi Constance, un luogo isolato, selvaggio, che rimanda a una Francia lontana, sprofondata nel tempo come potrebbe essere la campagna contadina di certi romanzi di Pierre Michon; e la Corea del Nord, paradiso fatto di plastica, moquette e dittatori supremi.

Quando cominciai a lavorare al libro, cinque anni fa, la Corea del Nord era molto meno conosciuta, un paese del tutto «impensabile», e proprio questa sua impossibilità a essere inquadrata in un’immagine precisa mi ha interessato. Mi affascinava l’idea che ci fosse un mondo allo stesso tempo impensabile e reale, un luogo che sapevamo essere terribile, ma che risultava a noi completamente opaco. Invece, per quanto riguarda la casa di campagna nella Creuse, perché ha nominato Pierre Michon?

Perché c’è un momento di «Inviata speciale» in cui Michon compare durante un’intervista televisiva: mi ha fatto pensare a quanto la casa dei rapitori ricordi, per certi aspetti, le atmosfere rarefatte del suo «Vite minuscole».
Ebbene, la casa nella Creuse descritta nel romanzo esiste davvero ed è proprio la casa di Michon, che è un amico di lunga data. È una casa di campagna, il posto più isolato e lontano dal mondo che io abbia mai visto. Fin dal primo istante in cui ci ho messo piede, mi sono detto che quello era un luogo su cui avrei costruito una storia. Per Inviata speciale avevo bisogno di un nascondiglio, dove tre persone potessero scomparire al mondo, e la casa di Pierre Michon era perfetta.

Uno dei personaggi maschili, il marito di Constance, è un compositore di musica pop. Dalla musica classica e dal jazz, che hanno animato una grande parte del suo universo letterario, adesso siamo passati a un universo fatto di hit–parade, trasmissioni radiofoniche e diritti d’autore miliardari.

Esattamente come per gli oggetti, in questo caso la musica è un «marcatore», il pop qui mi è servito per caratterizzare meglio il personaggio di Lou Tausk, per dargli una dimensione più umana. C’è da dire poi che il mondo della musica leggera è estremamente buffo, è un universo assurdo, con tratti grotteschi, perfetto per entrare a far parte di questo romanzo in cui gli equilibri logici su cui si costruisce la realtà si trovano spesso a vacillare.

Constance mi ha ricordato molto Anthime, il protagonista maschile di «‘14». Anthime viene spedito al fronte, vede gli amici morire, vive nell’incubo delle trincee senza mai esprimere un moto qualsiasi dell’animo. Paura, stupore, odio, non gli appartengono, la sua vita è modulata su una serie di constatazioni oggettive nei confronti di una realtà in cui lui non sembra essere che un oggetto tra gli oggetti. Totalmente passivo, semplicemente Anthime vive, o meglio, lascia che la vita lo attraversi, trionfando così sulla morte, sopravvivendo alla guerra. Lo stesso fa Constance, che nella totale e pacifica accettazione del proprio stato di vittima attraversa indenne un rapimento.

Non avevo mai considerato questa coincidenza, in effetti Constance e Anthime sono personaggi agiti, non prendono mai l’iniziativa e forse proprio per questo si salvano. Di Constance, «costante» nel suo stato di totale passività, sapevo fin da subito che ce l’avrebbe fatta. La sua passività rivela una grande forza di adattamento, non avrei mai potuto immaginarla infelice. Anthime invece è un personaggio reale. Anni fa, dopo la morte di un parente, in mezzo a una grande quantità di carte di famiglia, ho trovato per caso una serie di diari scritti tra il 1914 e il 1918 che appartenevano a un prozio di mia moglie. Non avendo particolari cose da fare in quel periodo mi sono messo a trascriverli visto che la grafia delle pagine non sempre permetteva una lettura scorrevole. Ora glieli mostro…

Il formato tanto piccolo di questi quaderni immagino fosse funzionale alle tasche di una divisa militare…
Esattamente, sono il diario della vita di trincea di un comune soldato della Prima guerra mondiale. Trascrivendoli è stato giocoforza pormi delle domande sui luoghi citati, sulle date, sugli spostamenti e lentamente ho cominciato a documentarmi, raccogliendo per un anno e mezzo quanto più materiale potessi sulla Prima guerra mondiale. Il romanzo è nato così, non volevo affatto scrivere sulla guerra, ma la mia curiosità ha deciso per me. Proprio come con la Corea, con la musica e la vita di Ravel, scrivere mi permette di colmare vuoti. Ogni romanzo richiede un’opera di ricerca pregressa che arriva anche a durare anni. È un lavoro che potrebbe non finire mai, e finché ci saranno cose al mondo che non conosco, continuerò a scrivere romanzi.