Jean Douchet è morto la notte del 21 novembre 2019. Era nato 90 anni fa. Era senza dubbio il più importante critico francese vivente. Nella seconda metà degli anni cinquanta, aveva cominciato a scrivere nei «Cahiers du cinéma», la rivista fondata da Bazin e Doniol-Valcroze nel 1951, celebre per i suoi eccessi e per la sua copertina gialla. Proprio nel momento in cui Truffaut, Godard e Chabrol cominciavano a passare dietro la macchina da presa, Douchet diventava il braccio destro dell’allora redattore capo, Eric Rohmer. Le sue critiche erano raramente negative. Gli interessava amare piuttosto che detestare. Questo suo modo di scrivere era anche un modo d’essere, e all’epoca entrava particolarmente in sintonia con il momento vissuto dai «Cahiers» i quali, vinta la battaglia con la vecchia «qualité française», non avevano più bisogno di distruggere ma piuttosto di reinventarsi.

SI DICE CHE MOLTI dei redattori, noti e meno noti, che hanno animato le bande dei «Cahiers» nei decenni successivi – da Serge Daney a Jean-Louis Comolli a André Techiné, tanto per fare qualche esempio, fossero entrati passando per i cineclub che Douchet, come si addice ad ogni baziniano, animava e ha continuato ad animare fino all’ultimo. «Tale è entrato ai Cahiers grazie a Douchet» è in molti casi una leggenda, alimentata dagli uni o dagli altri, e soprattutto dallo stesso Douchet – che era il primo a riconoscerlo, pur trovando, da fordiano, che in fondo «quando la leggenda diventa verità…». Di vero c’è che ogni redattore dei «Cahiers» ha potuto contare su Douchet, per un consiglio, per una battuta, o per qualche mese di ospitalità nell’appartamento dvdeteca del Boulevard Morland. Ed è paradossale che a Douchet sia rimasta attaccata invece l’immagine di un momento, il più reazionario, della rivista: l’episodio del numero interamente redatto dal gruppo dei Macmahoniani.

DOUCHET ha accompagnato, più o meno da lontano, le diverse fortune che i «Cahiers» hanno vissuto. L’uomo aveva i suoi gusti, le sue preferenze, i suoi amori. Ma era un lettore formidabile e, se non sempre benevolo, perlomeno bonario. L’unico rancore che si potesse trovare in lui era però inesauribile e riservato a Rivette, e al «colpo di stato» con il quale questi si era impadronito della rivista, estromettendo tra gli altri proprio Douchet. Ma anche quell’ostilità, alla quale è rimasto, come ad ogni altra cosa, sempre fedele, non era immune alla sua fondamentale bonimia, e immancabilmente Douchet finiva per ricordare che Le Pont du Nord (di Rivette) fosse un gran film.

QUESTA ERA LA CRITICA per Douchet: l’arte di amare, fortunato titolo preso in prestito da Ovidio per la raccolta degli articoli dei Cahiers «jaunes» pubblicata nel 1987. E in quella sua arte c’era segnatamente il gusto per la formula, se possibile concisa ché, come la battuta e il motto di spirito, deve la sua efficacia alla soddisfazione che si prova pensando di averne colto il senso. Douchet ammirava la bella formula, come del resto ogni aspetto formale dell’arte, che per lui era la porta d’ingresso per analizzare l’opera. Anche come cineasta, la sua immaginazione era rivolta innanzitutto alle forme, e questo spiega la sua predilezione per il cortometraggio. Tra i più riusciti c’è Et Crack !, dove l’amico Claude Chabrol interpreta un industriale talmente eccitato dai test sul punto di rottura di un nuovo materiale da trascurare la giovane moglie (Bulle Ogier) la quale, annoiata, cerca prima di sedurre un giovane borghese e, non corrisposta, spacca tutto. È così che Douchet formalizza il 68: una rottura.
Peraltro, Douchet non amava gli strappi. Il suo è sempre stato piuttosto lo spirito di un «passeur» – termine difficile da tradurre, ma che potremmo definire a metà strada tra l’educatore e il contrabbandiere.

PASSEUR è di certo chi rifiuta d’amare il passato. Amare Mizoguchi, Lang o De Palma o Renoir è sempre stato per Douchet un compito: quello di far entrare incessantemente questi autori nel presente del pubblico. E in questo Douchet è stato il più fedele discepolo del fondatore della Cinémathèque: Henri Langlois.
Non meno paradossale degli altri, c’è infine un Douchet a cui piaceva passare le Alpi.

Douchet è stato mille volte a Venezia, e in alcune occasioni anche al Lido, preferendo di regola perdersi nei musei e nei calli della città dei Dogi che nelle sale del Casinò. Era l’invitato fisso del Cinema ritrovato di Bologna. E di Torino, fino a che il festival è stato un luogo di sincera cinefilia e i camiciai non hanno smesso di lavorare su misura. Eppure Douchet non si è mai mimetizzato, non ha mai voluto esprimersi in altre lingue che il francese. Tutto il suo italiano si riassumeva in una sola espressione, che però a suo dire era la più bella mai inventata : «farniente». Ma anche la più sovente deturpata, dal pleonasmo: «dolce». Con lui se ne va un pezzo di quella misteriosa frontiera che, separando l’Italia dalla Francia, rende necessario un passeur, e che si manifesta nel cinema, in cucina, e in altre cose piacevoli, come il fatto che il più francese dei critici del cinema si sentisse in fondo un uomo del Rinascimento.