Nel 1915, l’anno in cui conosce Picasso e i coniugi Delaunay, entra in contatto con Apollinaire e, nella cantina di Madame Wassilieff, diventa amico di Modigliani, nel catalogo della sua mostra alla Galerie Tanner di Zurigo, la galleria dove incontra Sophie Taeuber che più tardi diverrà sua moglie, Arp scrive: «Questi lavori sono delle costruzioni fatte di linee, superfici, forme, colori. Essi cercano di accostarsi all’eterno, all’inesprimibile posto oltre l’uomo».
Nel 1966, pochi giorni prima della sua scomparsa, esce a Parigi Jours Effeuillés, un lungo discorso sull’arte, la poesia, la vita: «Oggi, come ai tempi dei primi cristiani, bisogna proclamare l’essenzialità. L’opera dell’artista deve sgorgare direttamente. I miei rilievi e le mie sculture s’integrano naturalmente con la natura. Solo quando si guardano più da vicino, ci si accorge che esse sono prodotte anche da una mano umana». La legge del caso, che comprende ogni altra regola, non può rivelarsi che nell’abbandono totale dell’inconscio, e allora «affermo che chiunque obbedisce a questa legge, crea la vita allo stato puro. L’arte, frutto spirituale dell’uomo, non è in opposizione alla natura. L’arte è di origine naturale e si innalza e si spiritualizza con la sublimazione dell’uomo».
Animatore del Cabaret Voltaire
Tra due date (1915: Torse-nombril; 1966: le sue ultime Construction architectonique), mezzo secolo di intenso lavoro. Anima con Ball, Tzara, Janco il Cabaret Voltaire, luogo di ritrovo dei dadaisti zurighesi; prende parte alla formazione del «Groupe International des Artistes Radicaux»; dà vita, a Colonia, con Max Ernst e James Baargeld, a un nuovo centro di attività dadaista; allestisce, con Hans Richter, le scenografie per il balletto Le tour Kakadu; illustra libri, pubblica volumi di poesia, partecipa al Festival del Bauhaus di Weimar, è presente alla parigina Première Exposition Surréaliste, scrive l’introduzione all’Histoire naturelle di Ernst; realizza una serie di rilievi in corda su tela e in legno dipinto che hanno, come scrive Breton, la pesantezza e insieme la leggerezza di una rondine che si posa sul filo del telegrafo; espone con il gruppo Cercle et Carré, entra in «Abstraction-Création», collabora alla rivista «Transition», inaugura il ciclo delle Concrétions humaines, esegue a Cambridge, in Massachuttes, il rilievo monumentale Constellations, viaggia in Grecia, Stati Uniti e Italia (dove vince, nel 1954, alla Biennale di Venezia, il Premio Internazionale per la Scultura), realizza una serie di grandi opere a Bonn, Basilea, San Gallo e L’Aja, esegue il fonte battesimale della chiesa di Oberwill e un tabernacolo per l’Abbazia di Mehrerau. È la sintesi di un impegno senza risparmio di forze, apparso nella sua assoluta vastità in occasione della retrospettiva al Museo Nazionale d’Arte Moderna di Parigi (1962) e ora, dopo l’antologica dell’opera incisa (1912-1964) conclusasi il 15 ottobre scorso al MIG, Museo Internazionale della Grafica di Castronuovo Sant’Andrea (PZ), riassunto da Alberto Fiz attraverso 55 opere di Hans, 2 di Hans e Sophie, 21 di Sophie Taeuber, in un allestimento discutibile sotto tutti gli aspetti tranne l’intuizione di tener conto della possibilità di guardare più da vicino le opere, per accorgersi che esse sono prodotte anche da una mano umana, e in un bel catalogo Electa ricco di contributi del curatore e di Pietro Bellasi, Danièle Cohn, Lea Mattarella, Andrea Cortellessa, Nanni Balestrini, George K. L. Morris (Intervista a Arp, del 1956) e Estelle Pietrzyk (Anfora infinita, Venere di Meudon, Piccola Demetra. Storia dei legami di Arp con l’antico) che, all’insegna di un esergo di Michel Seuphor («Ripensare il mondo attraverso una forma di Arp significa in un certo senso reintegrare l’Arcadia»), chiarisce il retaggio greco-romano, l’esaltazione di un ideale classico e quindi anche la scelta di uno spazio come le Grandi Aule delle Terme di Diocleziano dove la retrospettiva rimarrà aperta fino al 15 gennaio 2017.
Soggiorni sui monti Vosgi
L’adolescenza in Alsazia (Arp era nato a Strasburgo il 16 settembre 1887, al n. 52 di rue du Vieux-Marché-aux Poissons), l’influenza della madre, musicista animata da una profonda cultura francese, i lunghi soggiorni sui monti Vosgi, a contatto diretto con la natura, la grande ammirazione per Rimbaud, subito indirizzata verso ispirati componimenti poetici, l’impressione ricevuta dalla scultura di Maillol in una mostra d’arte francese a Weimar, l’interesse per Seurat (che del corpo umano faceva vaporose forme sintetiche) e per Rouault (che vivacizzava le figure con audaci deformazioni dai neri contorni) durante la frequentazione della parigina Académie Julian, la vita con la famiglia, circondato dal paesaggio astratto di Weggis, piccolo paese svizzero situato sulle rive del lago dei Quattro Cantoni, i numerosi mobili realizzati per il poeta alsaziano Otto Flake e le xilografie per i Poèmes di Tristan Tzara, la curiosità per la comunità di Monte Verità ad Ascona e l’abboccamento con Evola, l’intensa collaborazione con «La Revolution Surréaliste» e con «Minotaure», l’incontro con Kandinsky e con Theo Van Doesburg e, soprattutto, il perfetto connubio di arte e vita realizzato con Sophie Taeuber, determinante per il superamento dei limiti della metafora e delle lunghe soste nel gioco analogico-evocativo (interrotto nella notte del 12 gennaio 1943 quando le esalazioni di una stufa a carbone uccidono Sophie nello studio di Bill a Zurigo), tutti questi sono i punti nodali della formazione di Arp, teso a raggiungere, con mezzi espressivi come la linea, il profilo, la forma umana primitiva, lo stesso vuoto e le proporzioni, un senso dinamico di crescita e di trasformazione simile a quello della natura. Una natura riscoperta nel suo elementare linguaggio ma indirizzata verso forme universali guidate da un ordine occulto o, come lo chiamava Max Ernst, da un linguaggio ipnotico che ci riporta al paradiso perduto, al mistero dell’Universo, e ci fa capire di nuovo la lingua che l’universo stesso parla, la magica e cristallina chiarezza della poesia, l’Elementare e lo Spontaneo nascosti nelle cose di ogni giorno.
Constellations astratte e meditative
Le Constellations che tanto interessavano Mondrian, astratte e meditative, rigorosamente architettoniche, dichiarano la latente inclinazione mistica di Arp, che non militò mai sotto una sola bandiera, si sentì surrealista e dadaista contemporaneamente (l’uno e l’altro raggruppamento, del quale era stato cofondatore e precursore, lo sostennero nell’accentuazione del carattere poetico), sognò la concrezione umana, l’unione di «terra e astri, la massa della pietra, della pianta, dell’animale e dell’uomo». È la solarità mediterranea riflessa in sculture da perdersi in una foresta (Sans titre, 1926), evocazione di una forma umana (Hurlou, 1951), sogno orfico (Croissance, 1960), idolo sereno e dignitoso (Thailès de Milet,1951) di un arcaismo di volta in volta superato mediante la ricerca di nuove forme come di nuove forze praticate nello scambio vicendevole di vuoto e di pieno (Squelette d’oiseau, 1947), architettonicamente energiche: edifici alzati con l’aiuto di linee, piani e colori da peintre-poéte, peintre-graveur, sculpteur-poéte che utilizza i meccanismi del linguaggio verbale per ridurre nelle immagini le operatività descrittive (Seuil ondulant, 1960). Scrive: «Spesso un dettaglio delle mie sculture, un profilo, un contrasto, mi seduce e diventa il germe di una nuova opera. Io accentuo questo profilo, questo contrasto e così origino la nascita di una nuova forma. Alcune di queste crescono più veloci e più energiche delle altre. Le lascio crescere finché le forme originali sono diventate secondarie e quasi indifferenti. Allora elimino una di queste forme secondarie per liberare le altre».
Arp si lascia sempre trascinare dall’opera, si abbandona all’istinto, ha un gusto spiccato per l’avventura radicale, contraddizioni comprese, cede liberamente alla competizione della realtà e della circostanza per avere accesso al mistero, per conoscere i percorsi profondi della vita. La genesi, la crescita, il deperire delle forme organiche rappresentano la fonte di ispirazione di opere che sono esse stesse occasioni di indagine sul creato. Interessante, in tal senso, è la definizione che di lui diede la gallerista francese Denise René: «il più astratto dei surrealisti e il più surrealista degli astratti», un perfetto riepilogo dell’attitudine di Arp all’indipendenza di pensiero, alla mai piena adesione alle avanguardie a lui coeve.
La machine à communiquer di cui dispone discende a occhi chiusi, al limite dell’irrealtà terrestre, nel mondo del ricordo e del sogno; rintraccia le radici che ogni opera ha nel mito, nella poesia, e la sua partecipazione alla profondità e all’essenza dell’universo. Ecco perché, nella storia dell’arte di questo secolo, la sua scultura, che ha influenzato ininterrottamente le generazioni successive, non è un fantasma. La cifra distintiva che lo differenzia dagli altri scultori astratti, lui teorico della legge del caso e finissimo poeta, è proprio l’assenza di ogni visionarietà di natura letteraria, di ogni propensione al puro automatismo. Scrive: «Io volevo trovare un altro ordine, un altro valore dell’uomo all’interno della natura».