Traduzione dal francese di Annalisa Romani

Queste righe sono state ispirate dalla notizia atroce dell’uccisione del mio collega Samuel Paty, e dalla settimana difficile che ha seguito la notizia. In omaggio a un insegnante che credeva nell’educazione, nella ragione umana e nella libertà d’espressione, propongono una quindicina di riflessioni che invocano, nonostante l’emozione, di pensare al presente, di discuterne, con raziocinio. Queste riflessioni non hanno ovviamente la pretesa di incarnare il pensiero di Samuel Paty, ma sono state scritte per lui, nel senso che lo sforzo del pensiero, del discernimento, delle sfumature, della ragione, è stato fatto pensando a lui, e per rendergli omaggio. Continuare a pensare in modo libero, a esprimersi, a scambiarsi argomenti mi sembra l’omaggio migliore.

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Dapprima c’è stato l’orrore, nell’apprendere la notizia, la tristezza, la paura, davanti al crimine commesso, e i pensieri per le persone vicine a Samuel Paty, i suoi colleghi, i suoi studenti, tutte le comunità scolastiche francesi e, al di là della Francia, tutta la comunità degli esseri umani scioccate da questo crimine. Poi si è aggiunta la rabbia causata da tutti quelli che, in un modo o in un altro, ancora prima di saperne di più sui particolari che avevano portato al peggio, si sono affrettati a sfoderare kit teorici che minimizzavano l’atrocità del crimine o a dissolvere qualsiasi responsabilità dell’assassino (o eventualmente degli assassini) in entità eccessivamente estensibili (come l’“islamizzazione” o l’“islamofobia”) – senza contare quelli che strumentalizzano l’orrore per programmi che conosciamo benissimo: ripristino della pena di morte, caccia agli/alle immigrati-e, caccia ai/alle musulmani-e.

 

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C’è stata poi una paura, o alcune paure, nel veder ripartire così in fretta, all’ennesima potenza, una forma di reazione del governo che da molto tempo si dimostra inefficace (contro la violenza terrorista) e della sua dannosità (per il vivere comune e i diritti umani): invece di aumentare in modo adeguato i mezzi della polizia per fare ancora più indagini e farle meglio di come si sia fatto finora, per sorvegliare, per risalire ad anelli mirati della catena e smantellarli, ma anche per assumere in tempo reale la protezione delle persone che la chiedono, nel momento in cui la chiedono, si fa spettacolo con capri espiatori. Una sorda preoccupazione si è così aggiunta alla pena, davanti all’ondata di ingiurie, minacce e attacchi islamofobi, anti-immigrati e anti-ceceni apparsi immediatamente, ma anche davanti alla possibilità di altri attentati che potrebbero esserci in futuro. E il minimo che io possa dire è che tutte le energie del governo non sono concentrate sul prevenirli.

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Poi, di lettura in lettura, ho provato imbarazzo per quello che leggevo sui social network, “nel mio campo” stavolta, vale a dire principalmente tra le persone con cui condivido una certa concezione della lotta antirazzista. La cosa che più mi ha infastidito è stata la formulazione immediata di analisi esplicative quando in fondo non si sapeva quasi nulla di come si erano svolti i fatti nel dettaglio: quale comportamento aveva esattamente avuto Samuel Paty, mentre mostrava quei disegni, quali interazioni c’erano state, dopo, tra gli studenti, con i genitori, chi aveva protestato e in che termini, in quale forma, chi aveva avvelenato il contenzioso, come era scoppiata la bomba sui social network e, infine, qual era il profilo dell’assassino, il suo vissuto russo, ceceno, francese – il suo vissuto in tutte le sue dimensioni (familiare, socio-economica, scolastica, medica) le sue interazioni sociali e frequentazioni (o assenza di frequentazioni) religiose, politiche, delinquenti, terroriste. Mi ha infastidito, per esempio, il fatto che si sia spesso validata apriori, a partire dalla prime ore dopo il reato, l’ipotesi che Samuel Paty avesse “dato di matto” quando non era neanche sicuro, per esempio, che fosse proprio il disegno disgustoso del profeta a culo nudo (ci ritornerò), quello mostrato in classe (perché abbiamo letto anche che il professore aveva sporto denuncia “per diffamazione’ in seguito alle accuse pronunciate contro di lui), e che non si sapeva niente delle condizioni e del modo in cui aveva impostato le sue lezioni.

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D’altronde, secondo l’ipotesi (poi confermata) che sia stato proprio quel disegno, effettivamente problematico (ci ritornerò), a servire da innesco o da pretesto per la campagna contro Samuel Paty, c’era un’altra cosa che m’infastidiva. Prima di tutto questo rimosso: mostrare un disegno, per quanto problematico, osceno, volgare, di cattivo gusto, o persino razzista possa essere, può integrarsi benissimo in una pratica pedagogica, soprattutto durante una lezione di storia – dopo tutto, come mi diceva un collega di storia, mostriamo ignobili caricature anti-ebraiche quando studiamo l’ascesa dell’antisemitismo ed è ovvio che questo fatto, in se stesso, non costituisce una pura e semplice perpetuazione dell’offesa razzista. I due casi sono differenti per molti aspetti, ma ad ogni modo tutto si gioca nel modo in cui i documenti sono presentati e poi collettivamente commentati, analizzati, criticati. Ora, su questa modalità, in questo caso noi siamo restati molto tempo senza sapere cosa fosse esattamente accaduto, e alla fine abbiamo appreso che Samuel Paty non aveva avuto intenzioni malevole: si trattava veramente di parlare di libertà di espressione, rispetto a un caso particolarmente controverso.

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Inoltre, è stato appurato dopo, grazie alla ricostruzione delle testimonianze (soprattutto su Libération), che Samuel Paty non aveva fatto alcun uso malevolo delle caricature, e che i genitori degli studenti che all’inizio si erano preoccupati lo avevano capito subito, con facilità, dopo averci parlato. È stato appurato anche che, al di là di questo episodio particolare, Samuel Paty era un professore molto implicato e apprezzato, accogliente, a cui piaceva scherzare. È deplorevole che sin dall’inizio non ci sia stato un martellamento – sia da parte degli appassionati dello “spirito Charlie” che da parte delle persone legittimamente scioccate da alcune caricature – sul fatto che, anche nel caso contrario, se il professore avesse “dato di matto”, sia solo un po’ o di brutto, persino se non avesse preso tutte le precauzioni pedagogiche, persino se avesse intenzionalmente voluto ferire, insomma: anche se fosse stato un “cattivo prof”, altezzoso, lavativo o persino razzista, niente, assolutamente niente giustifica quello che è stato commesso.

Immagino che, nella maggior parte delle reazioni a caldo, questo sia stato dato per scontato ma credo che nel mondo in cui viviamo, in cui avvengono questi orrori, ormai si deve dire tutto in materia (intendo: in materia di messa a distanza dell’ultra-violenza), ovunque, persino le cose scontate. In altri termini, anche se pensiamo che sia necessario ricordare, in occasione di questo crimine e delle discussioni che rilancia, che è un bene il fatto che non tutto sia permesso in materia di libertà di espressione, questo secondo me è valido solo se si ricorda anche un altro monito: che è un bene anche il fatto che non tutto sia permesso, in materia di modi di limitare la libertà di espressione , di modi di reagire ai discorsi offensivi, e più precisamente che deve essere assolutamente vietato il ricorso alla violenza fisica, a maggior ragione all’omicidio. Viviamo purtroppo un tempo in cui questo non è più scontato.

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L’osservazione precedente è, mi sembra, il grande rimosso che più manca in tutto il dibattito pubblico, polarizzato da anni tra gli “Charlie” senza condizioni della “libertà di espressione”, e i “non Charlie”, preoccupati di porre “limiti” alla “libertà di offendere”: sia la libertà di espressione, che la sua necessaria limitazione non devono, di fatto, essere poste come l’imperativo categorico e fondamentale. Sono sostenibili entrambe, ma in uno spazio di parola sottomesso a un’altra forma fondamentale, sulla quale tutti potrebbero e dovrebbero mettersi d’accordo prima, e che è il rifiuto assoluto della violenza fisica.

Dopodiché, una volta che questa legge fondamentale è rispettata ed espressamente ribadita, la libertà di espressione, a cui Samuel Paty era così tanto attaccato, può e deve implicare anche il diritto di dire che secondo noi certe caricature di Charlie Hebdo sono odiose:

  • quelle, per esempio, che accomunano il profeta dei musulmani (e dunque – per un’inevitabile associazione di idee – l’insieme dei fedeli che lo venerano) a un terrorista, che lo rappresentano pesantemente armato, con il naso aquilino, gli occhi fuori dalle orbite, la faccia patibolare, o con in testa un turbante a forma di bomba;
  • allo stesso modo quella che offende gratuitamente i credenti (e i credenti lambda, tolleranti, non violenti, che li offende quanto e persino di più dei “jihadisti”, avidi di pretesti per far scorrere sangue), rappresentando il loro profeta con il culo di fuori, i testicoli all’aria e una stella musulmana al posto dell’ano;
  • quella che animalizza una sindacalista musulmana con il velo, affibbiandole una faccia da scimmia;
  • quella che annuncia la vittoria del Roland-Garros da parte di “una rumena” (l’allegra Simona Halep) e la rappresenta come una rom dal fisico deformato, che sfoggia la coppa mentre grida: “ferraglia! ferraglia!”;
  • quella che ci chiede di immaginare “il piccolo Aylan”, figlio di migranti curdi ritrovato morto in mediterraneo, “se fosse sopravvissuto”, e ce lo mostra diventato “palpeggiatore di chiappe in Germania” (dopo una serie di stupri commessi a Francoforte);
  • quella che rappresenta le schiave sessuali di Boko Haram, con il velo e incinte, sbraitare per i “sussidi”;
  • quella che immagina una fantomatica invasione o “islamizzazione” sotto forma di “grande sostituzione”, mostrandoci per esempio un musulmano barbuto, la cui barba smisurata ricopre tutta la pagina della copertina, nonostante un minuscolo Macron, armato di forbici, lotti “contro il separatismo” e riesca a tagliargliene solo qualche pelo;
  • quella che alimenta la stessa fantasia di invasione, raffigurando un Macron mentre dichiara che il velo delle donne musulmane “non lo riguarda” in quanto presidente, mentre il resto della pagina è occupato solo da donne velate, con una legenda degna di un volantino di estrema destra: “La Repubblica islamica en marche”.

Per ognuno di questi disegni, pubblicati per la maggior parte in copertina, potrei dare un’argomentazione dettagliata del perché li ritengo odiosi, e spesso razzisti. Potrei evocare altri esempi, come una copertina pubblicata in occasione di un attentato mortale commesso a Bruxelles, nel marzo 2016, e rivendicato da Daesh (che ha causato la morte di 32 persone e ne ha ferite 340), in cui figura in modo a dir poco scioccante il cantante Stromae, orfano del genocidio ruandese, che canta “Papaoutai” (Papà dove sei?) mentre intorno a lui volteggiano brandelli di gambe e di braccia o di occhi fuori dalle orbite. La lista non è conclusa, potrei evocare altre copertine – in particolar modo quelle che ci invitano a ridere (sarei tentato di dire: ridacchiare) della sorte delle donne violentate, dei bambini abusati, o dei popoli che muoiono di fame.

Abbiamo il diritto di detestare questo umorismo, abbiamo il diritto di pensare che alcune di queste caricature, tra tutte le altre recriminazioni possibili, incitino al disprezzo o all’odio razzista o sessista, e abbiamo il diritto di dirlo. Abbiamo il diritto di scriverlo, abbiamo il diritto di andarlo a dire davanti a un giudice, e persino durante una manifestazione. Ma – ed è scontato, l’attentato del 2015 obbliga ormai a dirlo espressamente – nonostante tutto il male che possiamo pensare di questi disegni, della loro brutalità, della loro indelicatezza, della loro cattiveria gratuita nei confronti di persone spesso indifese, del loro razzismo a volte, la violenza simbolica che questi esercitano è incommensurabile all’estrema violenza fisica costituita dall’omicidio, e questa dunque non potrà mai fornirgli neanche il minimo principio di giustificazione.

Abbiamo, insomma, il diritto di denunciare con tutta la nostra forza la violenza simbolica delle caricature quando la riteniamo illegittima e nociva, perché può esserlo, a condizione tuttavia di dire che, lo ripeto, avrebbe dovuto continuare a essere scontato ma è molto meglio dirlo, ormai: che nessuna violenza simbolica giustifica l’ultra-violenza fisica. Questo vale per i peggiori disegni di Charlie come per le peggiori battute di Zemmour o di un Dieudonné, come per tutto ciò che ci offende – dalla cosa più discutibile alla più assolutamente abietta.

Che resta della libertà di espressione se si difende solo il diritto alla caricatura ma non il diritto alla critica delle caricature? Che ne è del dibattito democratico se ogni critica radicale di Charlie oggi, e chissà se di Zemmour domani, di Macron dopodomani, è assimilata d’ufficio a un’incitazione alla violenza, dunque alla complicità del terrorismo, dunque vietata?

Ma, all’inverso: cosa diviene questo spazio democratico se la denuncia dell’intollerabile e l’appello a farlo cessare non sono preceduti e moderati dal ricordare in modo chiaro ed esplicito il divieto fondamentale dell’omicidio?

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C’è un’altra cosa che mi ha infastidito in certe analisi: l’interrogarsi sui “veri responsabili”, formulazione che lascia intendere che “dietro” un responsabile “apparente” (l’assassino) ci sarebbero “i veri responsabili”, non lui. Ora, se ritengo ovviamente necessario prendere in considerazione l’impatto dei determinismi sociali in tutta la sua forza e in tutta la sua complessità, è problematico dissolvere in questi determinismi tutta la responsabilità individuale di questo giovane di 18 anni – cosa che la sociologia non fa, contrariamente a come vogliono far credere certi polemisti, ma che alcuni discorsi possono fare, a volte.

Il fatto che ognuno si interroghi sempre sulla sua possibile responsabilità è una cosa piuttosto buona secondo me, a patto tuttavia che non si spinga lo zelo fino al “siamo tutti colpevoli” che dissolve ogni colpa reale e fa comodo ai principali colpevoli. Mi hanno infastidito le domande a catena che, in risposta “chi ha ucciso?” mettono in competizione, sullo stesso piano, da una parte chi ha effettivamente commesso il crimine e dall’altra altre persone. Gruppi sociali (la direzione della scuola, la polizia, il padre dello studente che ha lanciato la campagna pubblica contro Samuel Paty su YouTube, la figlia di questo che sembra averlo indotto in errore riguardo allo svolgimento dei suoi corsi) che, qualsiasi sia il loro livello di responsabilità, non hanno in nessun caso “ucciso” – la distinzione può sembrare semplice, addirittura semplicistica, ma a mio parere è cruciale mantenerla.

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A infastidirmi poi, e persino a nausearmi, quando il non detto è stato assunto e “il sistema” neoliberale e islamofobo è diventato “il principale responsabile, addirittura “il nemico da combattere” – al singolare, – è stata un’assenza, nella lista delle persone o dei gruppi sociali che potevano, al di là dell’individuo Abdoullakh Abouyezidovitch, spartirsi una parte di responsabilità. Mi ha infastidito l’oblio o la minimizzazione del ruolo dell’entourage più o meno immediato dell’assassino – che si tratti di un gruppo terrorista organizzato o di un gruppo più informale di persone a lui più o meno vicine (via social network), senza dimenticare, beninteso, l’accolito dell’irresponsabile “padre arrabbiato”: un certo Abdelhakim Sefrioui famoso promotore di odio, smascherato e ostracizzato da molto tempo negli ambienti militanti, a cominciare da quelli pro-palestinesi e dalla militanza anti-islamofobia.

Conosco i lavori di sociologia che criticano a giusto titolo l’approccio mainstream, focalizzato esclusivamente sulle tecniche di propaganda delle organizzazioni terroriste e che spostano l’attenzione sullo studio delle condizioni sociali che rendono udibili ed “efficaci” le suddette tecniche di propaganda. Ma giustamente, non si possono prendere in considerazione queste condizioni sociali senza osservare anche come queste pesino in modo singolare sugli individui, la cui responsabilità non è rimossa. E non possiamo mettere da parte proprio la responsabilità degli individui o dei gruppi di “complici”, soprattutto se ci si pone la questione in questi termini: “chi ha ucciso?”

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Il momento dello choc, del lutto e dell’amarezza “contro il mio stesso campo” è stato spesso sfruttato subito da un baccano mediatico assordante, con il suo lotto d’infamie in proporzioni diversamente più terrificanti. Il giornalista Samuel Gontier, nel suo blog “au poste”, ce ne dà un assaggio agghiacciante:

  • panel politici nei quali “l’equilibrio” invocato dal presentatore (Pascal Praud) consiste in un trio destra, estrema destra ed estrema destra (LREM, les Républicains, Rassemblement national), e in cui le differenti famiglie della sinistra (Vedi, PS, PCF, France insoumise, senza neanche parlare dell’estrema sinistra) sono semplicemente escluse;
  • “dibattiti” in cui sono seriamente posti all’ordine del giorno l’interdizione del velo in tutto lo spazio pubblico, l’espulsione di tutte le donne che portano il foulard, la decadenza della nazionalità per chi l’ha acquisita, la riapertura delle prigioni “nelle isole Kerguelen”, il ripristino della pena di morte e infine la “criminalizzazione” di tutte le ideologie musulmane conservatrici, “non solo del jihadismo ma anche dell’islamismo” (un po’ come se, in seguito agli attentati delle Brigate Rosse, del FAR o di Azione Diretta si fosse voluto criminalizzare, dunque interdire e dissolvere, la sinistra socialista, comunista, ecologista o radicale, con il pretesto che condivideva con i gruppi terroristi “l’opposizione al capitalismo”);
  • salotti televisivi in cui Manuel Valls può fare un appello in tutta coscienza e tranquillità, senza causare scandalo, a calpestare la Convenzione europea dei diritti umani: “Se sarà necessario, in un momento eccezionale, allontanarsi dal diritto europeo, far evolvere la nostra Costituzione, bisogna farlo”, “L’ho detto nel 2015, siamo in guerra. Se siamo in guerra, bisogna agire, colpire”.

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Poi, immediatamente, c’è stata quest’offensiva del Ministro dell’interno Gérald Darmanin contro il CCIF (Collectif Contre l’Islamophobie en France), svuotata di qualsiasi fondamento dal punto di vista della lotta anti-terrorista – dal momento che l’associazione non ha avuto ovviamente alcun ruolo nel crimine del 17 ottobre 2020, neanche nella campagna pubblica (su YouTube e Twitter) che lo ha causato.

Questa denuncia – veramente calunniosa, quindi – si è di fatto autorizzata a un escalation di generalità astratte, persino “nebulose”, e a un volgare sofisma: l’uccisione di Samuel Paty è un attacco ai “valori” e alle “istituzioni” de “della Repubblica francese” – che giustamente anche il CCIF “combatte” – dopodiché il CCIF ha “qualcosa a che fare” con questo crimine e quindi deve essere sciolto, c. d. d..

L’accusa resta tanto fantasiosa quanto infamante, perché la “battaglia” dell’associazione, lungi dal rivolgersi ai principi e alle istituzioni repubblicane in quanto tali, mira al contrario alla loro mancanza di efficienza: tutta l’attività del CCIF (lo si può verificare, sul sito dell’associazione così come nei rapporti dei giornalisti, sulla loro bacheca, da anni) consiste nel combattere la discriminazione basata sull’appartenenza religiosa o sulla pratica reale o presunta di una religione, dunque nel far applicare una legge della Repubblica francese. Il CCIF porta avanti questo lavoro con i mezzi più repubblicani che esistano, riaffermando lo stato di Diritto, proponendo mediazioni o portando davanti alla Giustizia, se non è questa un’istituzione della Repubblica francese, casi di offesa al principio di uguaglianza, se non è questo un principio della Repubblica francese.

Questo lavoro rende dunque il CCIF un’istituzione preziosa (in ogni caso in una repubblica democratica) che chiamiamo un “contro-potere”, ovvero: un nemico dell’arbitrio dello Stato e non dei “valori della Repubblica francese.” Il suo lavoro di allerta contribuisce persino a salvare la suddetta Repubblica, da se stessa si potrebbe dire, o piuttosto dai suoi servitori inadempienti e dai suoi demoni quali il razzismo e la discriminazione.

  • diventato subito evidente, quindi, come questa offensiva senza rapporto reale con la lotta anti-terrorista, si inscrivesse in effetti in tutt’altro programma, le cui premesse erano chiare fin dall’inizio dell’incarico di Emmanuel Macron, nelle ingiurie violente e nei tentativi del ministro dell’educazione Jean-Michel Blanquer di vietare il sindacato Sud éducation 93 o, più recentemente, nell’accanimento pieno di odio del deputato Robin Réda, incaricato di dirigere un’audizione parlamentare antirazzista, contro le associazioni di sostegno agli immigrati, soprattutto il GISTI (Gruppo d’Informazione e Sostegno agli Immigrati). Questo programma non è altro che l’esclusione dei “corpi intermedi” dalla società civile, e in primo luogo dei contro-poteri, come le associazioni antirazziste di difesa dei diritti umani, così come dei sindacati, in attesa che arrivi il turno dei partiti politici – un’idea della brutalizzazione del dibattito politico ce l’avevano data già gli attacchi gravissimi, contrari alla tradizione repubblicana del ministro dell’Interno Gérald Darmanin contro gli ecologisti (Julien Bayou, Sandra Regol e Esther Benbassa), poi contro la France insoumise e il suo presunto “islamo-gauchismo che ha distrutto la repubblica”, tutti attacchi precedenti alla morte di Samuel Paty.

Un programma in cui compare anche, lo abbiamo appena scoperto, una battaglia legale contro il sito d’informazione Mediapart.

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C’è stato poi l’annuncio di questi “blitz” contro associazioni e luoghi di culto musulmani rispetto ai quali lo stesso ministro dell’interno ha ammesso che non avevano nessun legame con l’inchiesta sull’omicidio di Samuel Paty, ma che servivano prima di tutto a “inviare un messaggio”, affinché “lo shock cambi di campo”. Quest’ammissione è terribile: quindi non è il tempo di difendere un modello (democratico, liberale, fondato sullo Stato di Diritto e aperto alla pluralità delle opinioni) contro un altro (oscurantista, fascista, fondato sul terrore), ma quello di una rivalità mimetica. Al terrore si risponde con il terrore, senza pretendere, come fece un Charles Pasqua di “terrorizzare i terroristi”: lo sanno che non saranno i terroristi a terrorizzarsi, lo sanno bene, lo si dice, se ne strafregano e rispondono all’omicidio con la stupidità e la brutalità, all’oscurantismo “religioso” con l’oscurantismo “civile”, al caos dell’ultra-violenza con il caos dell’arbitrio dello Stato.

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Prendono di mira le moschee quando è risaputo (soprattutto grazie alla notevole inchiesta di Jean-Baptiste Naudet, su L’Obs) che l’assassino non frequentava nessuna moschea – come era stato già il caso per altri omicidi di attentati precedenti. Si attaccano al “separatismo” e alla “chiusura comunitaria” quando si sa, grazie alla stessa inchiesta, che l’assassino non aveva nessun legame o interazione sociale con la sua comunità – come, anche in questo caso, è avvenuto spesso in passato.

Annunciano corsi intensivi di catechismo laico nelle scuole, formazioni intensive di libertà d’espressione, con distribuzione di “caricature” in tutti i licei, quando l’assassino era descolarizzato da un pezzo e aveva iniziato a “radicalizzarsi” solo al di fuori della scuola (e, anche qui, si riproduce uno schema conosciuto: si dà il caso che uno degli assassini del Bataclan frequentasse la scuola in cui insegno, tutti i professori lo ricordano come uno studente senza problemi e la famiglia ha osservato manifestazioni di “radicalizzazione” solo quando è entrato nella vita professionale, dopo, quindi, la maturità e il suo passaggio all’università).

E, alla fine, come ultima protezione: il ministro dell’interno Gérald Darmanin sogna di riorganizzare i reparti del supermercato! Se non ci fosse periculum in mora ci sarebbe da ridere. Se la posta in gioco non fosse così grave potremmo sorridere di una tale assurdità, di una tale incompetenza, di una tale scissione tra il fine e i mezzi. Potremmo sorridere davanti ai gesti marziali di un ministro che ammette lui stesso di non sparare verso i colpevoli e i complici, quando per esempio ordina operazioni contro istituzioni musulmane “senza legami con l’inchiesta”. Potremmo sorridere se non ci fosse stato un attacco omicida atroce, che arriva dopo molti altri, e se non ci fosse motivo di essere seri, ragionevoli, concentrati su obiettivi ben definiti: sorvegliare meglio, reperire, prevedere, prevenire meglio, intervenire meglio nell’urgenza, proteggere meglio. Potremmo permetterci il lusso di perdere tempo a discutere dell’abbigliamento o dei reparti del supermercato se non ci fossero vite umane in gioco – certo non le vite dei nostri dirigenti, iper-protetti da una guardia ravvicinata, ma soprattutto quelle dei professori e degli studenti.

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Questa inutilità, questa frivolezza, questa stupidità sarebbe meno colpevole se non ci fosse anche un grosso sostrato di violenza islamofoba. Questa stupidità sarebbe innocente, non avrebbe alcuna conseguenza se il dibattito sull’abbigliamento o sull’alimentazione delle diverse “comunità religiose” non fosse sovradeterminato, e da molti anni, da violenti e pesantissimi stereotipi razzisti. Potremmo conversare di biancheria intima e abitudini alimentari se gli usi e i costumi religiosi non fossero stigmi sfruttatissimi da tutte le tipologie di razzisti, se il rifiuto del maiale o dell’alcol per esempio, o il portare il velo, non fossero da anni cause ricorrenti di ingiuria, di aggressione, di discriminazione negli studi o sul lavoro.

C’è dunque una stupidità insondabile in questa messa in discussione assolutamente fuori tema dei negozi o dei reparti di “alimentazione comunitaria” che, dice Darmanin, “accarezzerebbero” i “più bassi istinti”, mentre (come riferisce sempre l’eccellente inchiesta di Jean-Baptiste Naudet ne L’Obs) l’uomo che ha ucciso Samuel Paty (come gli autori dei precedenti attentati omicidi) non aveva alcun radicamento in una “comunità” – né nell’immigrazione cecena, né in una comunità religiosa localizzata, dal momento che non frequentava nessuna moschea.

E in questa stupidità vi è una cattiveria altrettanto insondabile: un razzismo sordido nei confronti dei musulmani certo, ma non solo. C’è anche un disprezzo, un’ingiuria, un calpestare la memoria dei morti ebrei – dal momento che tra le vittime recenti dei massacri terroristi, ci sono proprio clienti di un negozio comunitario, L’Hyper Cacher, scelti come bersaglio e uccisi precisamente in quanto tali.

È questa la verità, crudele, che viene immediatamente a opporsi alle elucubrazioni di Gérald Darmanin: incriminando i modi di vita “comunitari”, e più precisamente la frequentazione di luoghi di culto o di negozi “comunitari”, il ministro non stigmatizza i colpevoli della violenza terrorista (caratterizzati al contrario dalla solitudine, l’isolamento, la navigazione in internet, l’assenza di legami comunitari e di pratica religiosa assidua, l’assenza in ogni caso di frequentazione dei luoghi di preghiera) ma proprio alcune delle sue vittime (i fedeli, attaccati sul loro luogo di culto, o di acquisti).

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Poi, qualche giorno appena dopo lo spaventoso attentato, senza alcuna concertazione sul campo, presso le professioni interessate, è piombata attraverso i giornali (come sempre) una notizia sconcertante: l’insieme dei Consigli regionali di Francia ha deciso di far distribuire una “raccolta di caricature” (non si sa quali) in tutti i licei. Per cui se servirà del sangue ad ogni costo andate a dare il vostro, diceva la canzone. Che ci vadano, allora, questi politici, a distribuirsele da soli le loro bibbiette repubblicane, nei mercati. Ma no: in alto hanno deciso che è il nostro di sangue che deve sgorgare, quello dei piccoli prof di merda, disprezzati, sottopagati, insultati da anni. E possibilmente anche quello dei nostri studenti.

 

Perché bisogna arrendersi all’evidenza: se questa informazione è confermata, e se accettiamo questo ruolo di eroi e martiri di un potere che gioca ai soldatini di piombo con professori e studenti in carne e ossa, noi diventiamo ufficialmente il bersaglio privilegiato dei gruppi terroristi. A un nemico che, nelle scelte dei bersagli e della comunicazione politica, funziona solo attraverso la sfida, attraverso il simbolo e l’invocazione dell’onore del Profeta, i nostri dirigenti rispondono con tutta la loro irresponsabilità attraverso la sfida, il simbolo e la rimessa in gioco dell’immagine del Profeta. Cosa dobbiamo aspettarci? Siamo pronti a questo? Io no.

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Come se tutto questo non bastasse, ecco infine che il leader dell’opposizione di sinistra, quello in cui avremmo dovuto sperare alla luce dei suoi impegni recenti, di qualche messa in guardia elementare ma benefica contro le generalizzazioni e la stigmatizzazione feroce dei musulmani, non finisce di stupirci o piuttosto di lasciarci costernati, sconvolti, perché si oppone effettivamente alla caccia ai musulmani, ma per invitarci immediatamente a un’altra caccia: quella ai ceceni: “ Io penso che ci sia un problema con la comunità cecena in Francia”.

Così al nostro uomo di sinistra bastano due crimini, commessi entrambi da una persona di origini cecene, in questi ultimi anni (l’attentato dell’Opera nel 2018, e quello di Conflans nel 2020), e una mega-rissa a Digione quest’estate in cui sono stati coinvolti decine di ceceni, perché il nostro uomo di sinistra deduca tranquillamente un “problema ceceno”, che riguarda tutta una “comunità” di decine di migliaia di persone che vivono in Francia.

 

“Sono arrivati in Francia perché il governo francese, che era molto ostile a Vladimir Putin, li accoglieva a braccia aperte” ci spiega Jean-Luc Mélénchon. “A braccia aperte” dunque, come in un discorso di Le Pen – padre o figlia. E abbiamo sentito bene: il motivo dell’asilo è un’inspiegabile “ostilità” della Francia contro il povero Putin – e non certo una persecuzione sanguinosa operata dal suddetto Putin, che si dichiarava pronto a “scannare” i suddetti ceceni “fin sulla tazza del cesso”.

 

“Probabilmente ci sono persone molto brave in questa comunità” finisce per concedere al suo intervistatore perplesso. Abbiamo letto bene, ancora una volta: “probabilmente”. Dunque non è neanche sicuro. E “persone molto brave” significa, in buon francese: qualcuno, non delle masse.

 

“Ma è un nostro dovere nazionale assicurarcene”, si precipita ad aggiungere – dunque persino il “probabilmente” è durato poco. E per finire, l’apoteosi: “Bisogna riprendere uno per uno tutti i dossier dei ceceni presenti in Francia e tutti quelli che hanno un’attività sui social network, come nel caso dell’assassino o di altri che hanno attività nell’islamismo politico (…), devono essere catturati ed espulsi”.

E anche qui, abbiamo letto bene: “tutti i dossier dei ceceni presenti in Francia”, “uno per uno”! Quanto ai sospetti, non saranno “interrogati” né “arrestati”, ma “catturati”: il vocabolario è quello della caccia, del safari.

Ecco dove ci porta il capo del principale partito di opposizione di sinistra.

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Infine, quando si scriverà la storia di questi tempi oscuri, bisognerà raccontare anche questo: come, nel momento in cui la nazione era invitata a unirsi nel lutto, nella difesa di un modello democratico, nel rifiuto della violenza, sia stata portata avanti una violenta campagna di stampa e di tweet per far cacciare e rimpiazzare, in modo puro e semplice, Nicolas Cadène e Jean-Louis Bianco, i responsabili dell’Osservatorio della laicità, sempre rimasti fedeli allo spirito e alla lettera delle leggi laiche, e come i due uomini siano stati accusati, alla fine, di aver “disarmato” la Repubblica francese e di essersi “messi al servizio” dei “nemici” della suddetta laicità e della suddetta repubblica – insomma di essere i complici di un assassino di professori, dal momento che è questo, il nemico in questione.

Bisognerà raccontare come universitari assolutamente ineccepibili su tali questioni, come Mame Fatou ed Éric Fassin, siano stati contestati in modo violento su twitter, una ricevendo spregevoli video di decapitazione, e l’altro minacce di subire la stessa cosa insieme all’accusa, in entrambi i casi, di essere i responsabili della morte di Samuel Paty.

Bisognerà ricordare come un intellettuale famoso, invitato a tutte le trasmissioni, abbia proferito tranquillamente, anche in questo caso senza essere ripreso dai presentatori, lo stesso tipo di accusa contro la giornalista e cronista Rokhaya Diallo la quale, criticando Charlie Hebdo, avrebbe “spinto gli assassini ad armarsi” e “provocato” la morte dei dodici di Charlie Hebdo.

Bisognerà ricordare, infine, come al vertice dello Stato, in questo periodo di lutto, di armonia nazionale e di lotta contro l’oscurantismo, il ministro dell’Educazione nazionale in persona abbia attizzato questo genere di cattiva discussione e cattivo processo – è un eufemismo – dichiarando: “Quello che chiamiamo l’islamo-gauchismo ha effetti devastanti all’Università. Ha effetti devastanti quando l’UNEF cede a questo tipo di cose, semina il terrore quando tra le fila de la France insoumise, avete persone di questa corrente che si presentano come tali. Queste persone qui favoriscono un’ideologia che, dopo, in lungo e in largo, porta al peggio.”

Bisognerà raccontare come questi sofismi e queste pure e semplici menzogne abbiano costruito o cercato di costruire: un “consenso nazionale” fondato su una rabbia cieca, invece che su un lutto condiviso e un “mai più” sincero e ponderato. Un “consenso” singolarmente divisore in verità, che esclude in modo radicale e brutale tutti i contropoteri umanisti e progressisti che potrebbero temperare la violenza dell’arbitrario di Stato, e portare un contributo all’elaborazione di una risposta anti -terrorista pertinente ed efficace: il movimento antirazzista, l’opposizione di sinistra, la sociologia critica… E includendo, invece, senza il minimo scrupolo, una destra repubblicana radicalizzata come non mai, e un’estrema destra lepenista.

Non so come concludere, se non ripetendo il mio accoramento, la mia tristezza, la mia demoralizzazione, la mia paura – perché nasconderlo? – e il mio sentimento di impotenza di fronte a un abbrutimento in marcia. Certo, l’abbrutimento della vita politica si era attivato molto prima di questo crimine atroce – l’evoluzione del mantenimento dell’ordine durante tutti gli ultimi movimenti sociali ne è una testimonianza, e i nomi di Lallement e di Benalla ne sono due begli emblemi.

Ma questo attentato, come i precedenti, ci fa oltrepassare un limite in termini di orrore. La risposta a questo orrore si annuncia disastrosa e, lungi dall’opporre in modo efficace la forza alla forza (cosa che può essere fatta, ma che presuppone discernimento) aggiunge violenza cieca alla violenza cieca – mentre ci espone e ci indebolisce come mai prima. In modo ingenuo, senza dubbio con un po’ di quell’idealismo che animava Samuel Paty, faccio appello a un sussulto collettivo, e alla ragione.

Per riprendere una parola d’ordine apparsa in seguito a questo crimine atroce, Je suis prof. Je suis prof nel senso che mi sento solidare a Samuel Paty, che la sua morte mi sconvolge e mi terrorizza, ma je suis prof anche perché è semplicemente il mio mestiere. Je suis prof e quindi credo nella ragione, nell’educazione, nella discussione. Da venticinque anni, insegno con passione la filosofia e mi sforzo di trasmettere il gusto del pensiero, della libertà del pensare, dello scambio di argomenti, del contraddittorio. Je suis prof e mi sforzo di trasmettere quei bei valori complementari che sono la tolleranza, la capacità di indignazione di fronte all’intollerabile, la non-violenza nell’indignazione e la lotta per le proprie idee.

Je suis prof e da venticinque anni mi sforzo di promuovere il rispetto e l’uguaglianza di trattamento contro tutti i razzismi, tutti i sessismi, tutte le omofobie, tutti i sistemi inegalitari. E mi rifiuto di andare a morire al fronte per una crociata falsamente “repubblicana”, condotta da un ministro dell’Interno che ha iniziato la sua carriera politica, tra il 2004 e il 2008, in seno all’estrema destra monarchica (al fianco di Christian Vanneste e di Politique magazine, l’organo de l’Action française).

Je suis prof e mi rifiuto di sacrificare tutto quello in cui credo per la carriera di un ministro che nel 2012, ancora, militava con accanimento per “La manif pour tous”, affinché gli omosessuali non avessero gli stessi diritti degli altri – senza voler parlare del suo rapporto con le donne, perlomeno problematico e di quello che il nostro gran repubblicano chiama, con un delicato eufemismo, la sua “vita da giovanotto”.

Je suis prof e insegno la laicità, quella vera, che si è incarnata nelle belle leggi del 1881, 1882, 1886 e 1905, e che non è altro che una produzione continua di maggiore libertà, maggiore uguaglianza e fratellanza. Ma non è questa la laicità, lungi dall’esserlo, esposta in questi giorni, meno che mai, anche se la parola viene ripetuta all’infinito. Quella che vedo instaurarsi, invece di essere fraterna è al contrario una politica liberticida, discriminatoria, dunque inegalitaria, sospettosa o piena di odio, senza neanche il pretesto dell’efficacia nei confronti del terrorismo.

Je suis prof e questa vera laicità, questo gusto del pensiero e della parola libera voglio continuare a promuoverlo. E mi auguro per questo di restare in vita. E mi auguro per questo di restare libero, padrone delle mie scelte pedagogiche, in condizioni materiali che mi permettano di lavorare. E mi rifiuto di diventare ostaggio di una maschera da eroe o da martire cucita per me da avventurieri senza giudizio, senza cuore né principi – questi falsi amici che sanno solo incensare i prof morti e disprezzare quelli vivi.

Articolo pubblicato il 22 ottobre in francese qui