«Ero incinta durante la preparazione del disco. Ogni giorno sentivo dentro di me crescere il mio bambino, e allo stesso tempo sentivo crescere l’ispirazione per questo disco». Parole di Jazzmeia Horn, forse la più dotata giovane vocalist jazz sulla piazza, scritte di suo pugno nel booklet che accompagna l’album d’esordio, A social call (Concord Music). Ventisei anni, nata a Dallas, la Horn mostra una sorprendente maturità e una capacità interpretativa non comune – e che ritroviamo nella verve della coetanea Cecil McLorin Salvant.

Voce duttile che non nasconde la passione e l’influenza dei grandi maestri del passato – Sarah Vaughan (il suo idolo dichiarato) e Betty Carter, messa al servizio di adattamenti dei classici anni ’70 – I’m Going Down dei Rose Royce (nei ’90 anche Mary J. Blige ne ricavò una hit di proporzioni gigantesche), e soprattutto una vivida rilettura di People Make the World Go Round, successo degli Stylistic uscito dalla penna di Thom Bell e Linda Creed. «La prima volta che l’ho ascoltata – ha raccontato Jazzmeia in un’intervista – ero in macchina con mia nonna che dopo le prime note si mise a piangere. Ero piccola e non compresi subito il significato di quel pezzo. Parlava di gente che ha difficoltà a sbarcare il lunario, mia nonna per vivere doveva fare da baby-sitter a due altri bambini e non si perdonava il fatto di non poter seguire i figli e i nipoti come avrebbe voluto».

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Jazzmeia non fa proclami politici, non ama esporsi completamente come altri colleghi, ma è consapevole dei drammi sociali e politici che si consumano intorno a lei e nel mondo: «Non vedo perché chi fa musica non possa esprimere una propria opinione su quanto succede nel pianeta. Io non giudico nessuno, ma è certo che mi sento ferita come black american. Osservo e prendo ispirazione da quanto vedo: episodi di razzismo, xenofobia, povertà, le paure e l’incapacità fra culture e religioni diverse di relazionarsi». I due minuti e venticinque secondi del brano che intitola il disco Social Call, firmato a quattro mani da Gigi Gryce e Jon Hendricks, sono quasi una folgorazione: «Mi capita di camminare per le strade di Harlem invase da gente che protesta contro gli episodi di violenza e di xenofobia. Poi mi siedo sul divano dopo cena e mentre guardo la televisione vedo gente manifestare in Siria, Sud Africa e a Parigi. Viviamo in un mondo difficile, e forse la musica può servire come una sicura ancora di salvezza».

Voce e tecnica sono fondamentali per un jazz singer di professione, ma altrettanto importante è trovare una propria personalità: «A un certo punto – ha raccontato di recente in un’intervista al sito soulandjazzandfunk.com – ho capito che stavo imitando troppo lo stile di Sarah Vaughan. E questo – sottolineo – tempo prima che vincessi quattro anni fa il Sarah Vaughan Competiton. Allora ho cominciato ad ascoltare altre voci e sono passata dall’ispirarmi troppo a dei modelli, alla ricerca di un mio stile, di una mia voce. E credo alla fine di avercela fatta…».

Ad accompagnarla nel disco – un progetto andato in porto grazie alla sua affermazione al prestigioso Thelonious Monk Institute international Jazz competition – anche straordinari musicisti, partendo dal bassista Ben Williams, Victor Gould (piano), Jerome Jennings (batteria) e il sassofonista Stacy Dillard. È una selezione che si muove agile, con materiali provenienti da differenti epoche, ma che mantiene un comune denominatore: «Diciamo che il senso del disco è l’amore – spiega – in senso molto generale. Amore per la società, per la vita, per i bambini, per ogni cosa che alla fine possa realmente appassionarci».