Il 31 dicembre 2001 venne presentato nella basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme il Jazz Te Deum, composto da Gabriele Verdinelli, Bruno Tommaso e Giorgio Gaslini (che ne fu direttore). Un’incursione nella musica sacra realizzata, però, con un taglio «laico» e testi di varia provenienza curati dal musicologo Pietro Sassu. L’opera era già stata registrata nel giugno 2000 dal vivo a Sassari, chiesa di Santa Maria in Betlem, e sarebbe stata pubblicata nel 2001 dall’etichetta Soul Note insieme al Sacred Concert di Gaslini, coprodotta da varie associazioni (le committenti Ass.Polifonica S. Cecilia e Ass. Blue Note Orchestra) con il supporto di ministero per i beni culturali, comune di Sassari e regione Sardegna.
Jazz Te Deum (il Te Deum è un inno cristiano, in genere cantato il 31 dicembre in ringraziamento a dio per l’anno trascorso) è un’opera intensa e toccante, che connette mondi sonori e linguistici diversi e si connota come altamente simbolica. Si tratta di una composizione estesa affidata a tre autori complementari: Gabriele Verdinelli, allora direttore del coro di Santa Cecilia e docente in conservatorio, che ebbe l’idea e rappresentava il versante «aperto» delle istituzioni musicali. Giorgio Gaslini – pianista, compositore, direttore d’orchestra e didatta – che fin dal 1957 si era confrontato con la musica europea (la sua dodecafonica Tempo e relazione) e che aveva sempre cercato, nella dimensione della «musica totale», un’espressione sonora che non fosse derivativa del jazz statunitense ma memore di quella lezione quanto di quella europea (colta, contemporanea e popolare).
Bruno Tommaso – contrabbassista, compositore, arrangiatore, didatta, inventore, con altri, della Scuola Popolare di Musica di Testaccio – che era ed è una luminosa figura di intellettuale e jazzista europeo, formatore di molte generazioni di musicisti e anch’egli autore di musiche a cavallo tra Vecchio e Nuovo Mondo.

TRE RAPPRESENTANTI
In Jazz Te Deum si univano tre figure rappresentative, autrici delle tre parti dell’opera (durata 50 minuti) che utilizzava testi in latino, italiano e sardo, con pagine di Girolamo Savonarola, Pier Paolo Pasolini, Melchiorre Murenu e Peppino Mereu (poeti in lingua sarda, morti rispettivamente nel 1854 e nel 1901). Davano spessore sonoro alle partiture la sassarese Orchestra Jazz della Sardegna (con, tra gli altri, il flauto di Agostino Frassetto, il sax tenore di Massimo Carboni e il corno francese di Gavino Mele), il Coro Polifonico di Santa Cecilia (diretto da Verdinelli), le voci soliste di Maria Pia De Vito, Elena Ledda, Andreana Demontis, Noemi Tedde, Paolo Pecchioli. La tromba solista era quella, sempre ispirata, di Paolo Fresu che ancora oggi ricorda Jazz Te Deum come «un’opera complessa dal suono spesso ma anche con ampi spazi di silenzio e di improvvisazione dove la tromba si muoveva con libertà e agilità contraltando anche con le voci soliste di M.P. De Vito, E. Ledda e con altre cantanti. Inoltre la coraggiosa novità del libretto di Pietro Sassu sui testi di alcuni dei poeti sardi dell’Ottocento». Una prova di grandissima maturità e originalità del jazz e della musica italiana che a una ventina d’anni di distanza è importante ricordare.

La molta strada percorsa dal jazz italiano dagli anni Settanta e il repertorio creato in questi decenni è al centro di due volumi, tra loro complementari, scritti da Bruno Tommaso e da Stefania Cenciarelli, un’economista esperta di programmi europei per lo sviluppo con la passione del jazz, coltivata nella pratica sonora come negli studi in conservatorio.
La scuola che sognavo. La musica come bene comune, il jazz come dialogo (edipan, pp. 209, euro 15) è stato scritto da Bruno Tommaso in piena libertà (con la collaborazione di Alfredo Gasponi) in modo aforisticamente organico. È un testo che rispecchia la personalità dell’artista, la sua lucida visione della realtà, il suo senso dell’utopia, il cristallino rigore etico, perché – come scrive Stefano Zenni nella prefazione – «la musica (è) come crocevia privilegiato dove in un unico gesto si insegna, si impara e si crea. In questo senso, la lezione di Bruno Tommaso come musicista e insegnante è al tempo stesso etica e creativa, di fedeltà ai propri principi e superamento delle regole» (p. VII). I due sottotitoli, del resto, rivelano la centralità della formazione e la dialogicità del linguaggio jazz. Non a caso la narrazione inizia dalla chiusura del corso straordinario di jazz che Giorgio Gaslini tenne al conservatorio romano di Santa Cecilia nel 1972-’73, frequentato da Tommaso e da decine di altri giovani jazzisti (da Massimo Urbani a Eugenio Colombo, da Maurizio Giammarco a Danilo Terenzi): «Era stata una bella avventura. Che per quanto mi riguarda – scrive il contrabbassista – significava un passo importante verso la scuola che sognavo: una scuola di musica senza barriere» (p. 2).
Se le istituzioni musicali, nonostante il successo didattico di Gaslini, si chiusero a riccio, negli impetuosi anni Settanta era difficile arginare la spinta che dai giovani arrivava in direzione di nuove e più libere musiche, dal bisogno di cultura e sonorità «vere», di spazi, di insegnamento non impositivo, di partecipazione.
La scuola che sognava Bruno Tommaso prese corpo nel 1975 a Roma con l’occupazione di uno stabile abbandonato in un quartiere (allora) popolare di Roma e la nascita della Scuola Popolare di Musica di Testaccio. Accanto a Tommaso c’erano ex-compagni del corso di Gaslini e altre figure: Giovanna Marini, Colombo, Martin Joseph, Giancarlo Schiaffini, Michele Iannaccone, Giammarco, Tommaso Vittorini, Paolo Damiani… «Decidemmo di lavorare per una scuola nuova. Una scuola che voleva essere di tutti e per tutti. Per gli aspiranti professionisti e i dilettanti. Per i semplici ascoltatori e gli studiosi. Per chi amava il classico ma voleva praticare anche il rock e il pop, il jazz e la musica etnica. Una scuola nel segno dell’aggregazione e del sociale» (p. 3). Era una filosofia incendiaria allora e, in gran parte, lo è anche oggi: di fatto la SPMT ancora esiste, dopo quarantasei anni. La chiusura delle istituzioni e la creazione di una nuova scuola riassumono tratti essenziali della vicenda di Bruno Tommaso e di tutta la scena jazzistica italiana che proprio negli anni Settanta esplose, allargandosi a fasce giovanili mai così vaste e intercettando esigenze artistiche, etiche e politiche nuove.

ESCAMOTAGE
Il contrabbassista-compositore-didatta racconta ne La scuola che sognavo con un escamotage alfabetico la sua lunga e ancora attiva carriera, incentrata su «Storie, incontri, luoghi, gruppi musicali»: si va dal Folkstudio di Giancarlo Cesaroni a Siena Jazz, dalla didattica alla Italian Instabile Orchestra, dal rapporto con il cinema muto a Barga Jazz, senza trascurare l’Associazione Nazionale Musicisti di Jazz (AMJ) di cui Tommaso fu (nel 1989) il primo carismatico presidente.
Attenzione, però: non c’è rimpianto né retorica nelle ricostruzioni dell’autore, cui non mancano mai né la lucidità né l’ironia (anche l’autorironia). Ad esempio quando parla della situazione attuale dei conservatori, dove il jazz è ormai accolto, invita ad evitare i difetti dell’istituzione formativa «a cominciare dalla prosopopea e dall’arrogante convinzione di essere portatori della verità assoluta». E continua maieuticamente criticando: «Tutto qua il motivo di anni di lotte? Scimmiottare modelli pedagogici concepiti in altri contesti geografici e ignorando le possibilità, insieme ai rischi ovviamente, di percorsi originali collegati alla nostra storia, quella lontana come quella recente, ma con una visione aperta al mondo e all’innovazione?» (pp. 12-13). L’insegnamento è questione centrale per Bruno Tommaso e non a caso sottolinea la centralità dell’allievo e non dell’ego del docente: «Se non capiamo questo è molto meglio andare in cerca di altri mezzi per sopravvivere, piuttosto che fare confusione e danni» (p. 136).
E in Percorsi ci sono ben cinquanta suggerimenti per i musicisti giovani, che il contrabbassista-compositore ha sempre ascoltato con attenzione, formato e valorizzato in numerosissime iniziative didattiche e seminariali. Tra i tanti Paolo Fresu che ancora oggi ricorda: «Innanzitutto Bruno è stato il primo a credere in me. Mi conobbe nell’estate del 1980 a Siena Jazz; mi invitò nel 1982 a Roma, a far parte di un’orchestra di giovani talenti italiani per la trasmissione di Radio 3 Un certo discorso di Pasquale Santoli, il mio primo ingaggio professionale. Con il tempo siamo diventati amici al punto da essere stato suo testimone di nozze…». Tra i tanti suggerimenti, rigorosamente numerati, eccone un paio: «(24) …Si cerchi quindi di vivere al meglio il proprio tempo, mettendo al bando le nostalgie, reali o fittizie che siano. (25) Indagare sul proprio dna musicale e lavorarci sopra con sincerità e senza forzature».

UN ASPETTO
C’è ancora un aspetto della personalità di Tommaso che trova giustamente spazio nella sua anomala autobiografia: quello del compositore-arrangiatore di cui si parla, tra l’altro, in Memorie di uno smemorato e Sette peccati di vecchiaia. Abbiamo chiesto a Paolo Fresu come valuta il ruolo di didatta e compositore del contrabbassista per la comunità del jazz italiano e questa è stata la sua risposta: «Il mondo del jazz italiano e della didattica deve moltissimo a Bruno. Perché ha inventato una didattica nuova, codificato un sistema di direzione accessibile e chiaro e inventato un suono orchestrale oltre ad avere dimostrato una apertura che il jazz, in anni passati, sembrava non avere. Ha seminato molto e molto ha raccolto e, senza il suo apporto, il jazz di oggi sarebbe diverso e più povero».
In una trentina di pagine Bruno Tommaso analizza la «genesi» delle sue numerose composizioni («giunte o no alla registrazione») suddividendole in «progetti», «sogni» e «retroscena discografici». Nelle prime due sezioni si espone «quello che non ho potuto portare a termine, o almeno non ho potuto o voluto ‘eternare’ su disco» (p. 91) ed emerge in tutta la sua creatività e fantasia la progettualità di Tommaso. Un solo esempio per tutti. Nel 2013 – ai seminari di Nuoro Jazz – la partitura in dieci episodi I migranti che vide il coinvolgimento di allievi e docenti dei seminari; gli episodi si intitolavano Viaggio nella Rift Valey, Dammi un segno, Una telefonata fra Garibaldi e Meucci, In cucina con Sidney, La Rocca di San Nicola, Printing the Blues, La diaspora, Tarantella balcanica, I migranti, Con o senza Erasmus. Per fortuna il concerto fu registrato e ripreso in video e sarebbe bello che qualcuno lo editasse, dato che il repertorio di Tommaso è, purtroppo, in gran parte non pubblicato su disco.
Alla fine del XX secolo l’etichetta Imprint Records del compianto Alfredo Profeta aveva avviato un’iniziativa organica di registrazione ma con la scomparsa del produttore il progetto si è bloccato, non la creatività di Tommaso che nel capitolo del libro Sette peccati di vecchiaia racconta le sue composizioni più recenti (2012-2017). Gli elementi della poetica che si ritrovano sono l’ironia e l’arguzia sonora e verbale, il «giocare» con le forme in una dimensione didattica, il porsi con originalità all’intersezione tra jazz e musica europea, il lavoro sull’immaginario cinematografico, la conservazione e il passaggio ai più giovani di una «memoria» che si fa coscienza politica, la trasmissione dei «patrimoni sonori» unita strettamente allo spirito critico e a una visione non mitizzante né mitologica del jazz. Tutto ciò costituisce un ampio repertorio, un policromo «catalogo» che merita di essere apprezzato in ambiti sempre più vasti e vede il contrabbassista-compositore affiancato da altre personalità, alcune delle quali ha contribuito a formare.

CONSERVATORIO
Torna, in questo senso, utilissimo il volume di Stefania Cenciarelli L’approccio italiano all’arrangiamento jazz (Aracne editrice, collana Il suono e il tempo diretta da Cinzia Gizzi, pp. 244, euro 22). In primo luogo è significativo come si torni ai conservatori e, in particolare, a quello di S. Cecilia presente sia nel Jazz Te Deum (attraverso il coro e Gabriele Verdinelli) che nei fecondi corsi straordinari di Giorgio Gaslini. Il libro nasce infatti da una brillante tesi di dottorato presso il dipartimento jazz dell’istituzione sonora romana e, come recita il sottotitolo, ha il suo focus nelle «libere conversazioni e analisi dei lavori originali di Mario Corvini, Giancarlo Gazzani, Giancarlo Schiaffini, Marco Tiso e Bruno Tommaso». Libro sì per musicisti, ricco di partiture, che si voleva presentare a Santa Cecilia anche in forma concertistica, iniziativa che l’epidemia di Covid-19 ha fatto rimandare; libro, però, anche per storici e appassionati perché testimonia l’originalità dei repertori jazz e delle pratiche di arrangiamento maturate in Italia.

Ne parla con l’autrice Tommaso come due suoi coetanei quali i trombonisti GiancarloSchiaffini e Giancarlo Gazzani (tutti e tre sono stati docenti a Siena Jazz) nonché due «allievi» come Mario Corvini, altro trombonista, e il pianista Marco Tiso. Paolo Damiani (che è stato a capo del Dipartimento Jazz) nella presentazione afferma che «nell’opera c’è una ‘visione’ del jazz e delle musiche possibili davvero ricca» (p. 9). La pianista e didatta Gizzi parla del testo come di un doveroso «omaggio agli artisti che hanno arricchito la letteratura musicale italiana, artisti da tempo riconosciuti a livello internazionale, forse non ancora onorati come meriterebbero in ambito nazionale» (Prefazione, p.v12).
Attraverso una serie di interviste mirate, Stefania Cenciarelli entra nella bottega dei musicisti in quanto arrangiatori di proprie e altrui composizioni, dal tommasiano Vento del Nord all’ellingtoniana Mood Indigo. Ognuno con un suo percorso svela i segreti del personale approccio alla materia sonora ma «non v’è dubbio che il jazz sia una musica aperta alla contaminazione, all’improvvisazione che dà a chi la pratica una ‘marcia in più’ per dirla con una frase del maestro Armando Trovajoli citata da Marco Tiso». Dove si colloca, allora la «jazzità», per dirla con Giancarlo Schiaffini? Se, come afferma Giancarlo Gazzani, «la tradizione è un ottimo punto di vista», è altrettanto importante quella che Bruno Tommaso definisce «l’ansia dello scoprir facendo» che implica la voglia di sperimentare e innovare tipica del jazzista.
La conclusione a cui sembrano giungere i cinque musicisti intervistati è che «il jazz, nato contaminato, per sua natura tende a confluire nel solco unitario di tutte le musiche, una visione unica in cui stili, epoche, tecniche, colori, ritmi si fondono in una concezione che, lungi dall’essere ibridazione, sa esaltarne la bellezza e la universalità» (pp. 17-18). Che si giunga a tali vertici non solo negli Usa ma in Italia è il frutto di una lunga ricerca dei jazzisti che non hanno voluto solo imitare i «maestri» ma cercare una via autonoma, consapevole di tante radici. «Certo per trasgredire è meglio avere una grande consapevolezza delle regole. Ma dopo un po’ io credo sia bene anche fidarsi del proprio istinto e osare» (Bruno Tommaso, p. 202).