S’è detto e scritto spesso, non senza solidi argomenti, che il jazz è musica a tutti gli effetti della modernità, per quanto la situazione attuale di mercato e di rapporti di forza nel mondo mediatico conosca un momento di sotto esposizione nelle apparenze, e, viceversa, di presenza reale nel cuore delle cose della musica che conta. Il jazz ha poco più di cent’anni, almeno a far data dalla prima registrazione «ufficiale», quella della Original Dixieland Jass Band, ancora con le due «esse» nel nome, ma è un centenario assai arzillo e in ottima salute. Ha bruciato le tappe della ricerca, accumulando in cent’anni un repertorio di estetiche, pratiche e poetiche che richiede davvero una vita di ascolti e studi critici, è riuscito a salvare sé stesso dalla coazione a ripetere, pur non smarrendo mai il senso della propria particolarissima storia. E allora andiamo a indagare cosa succedeva nel jazz e dintorni ieri, cent’anni fa, quando la cronologia ufficiale marcava il 1919. L’Europa, e buona parte del pianeta, portava ancora i segni di due serie di eventi clamorosi e fatali: la prima guerra detta «mondiale», dove si sperimentarono armi nuove e letali e massacri sconvolgenti, e la pandemia (aiutata proprio dal conflitto bellico generalizzato) della cosiddetta «febbre spagnola», che si portò via altre decine di milioni di persone, arrivando a colpire anche nell’oceano Pacifico, e aggiornando la terribile conta dei morti della famigerata Peste nera che aveva falciato il mondo nel XIV secolo. Due catastrofi di tale rilevanza chiedono subito il conto a pareggio, nelle società, di una rinnovata voglia di vivere, e vivere bene. Chi non finirà nelle secche squallide dei nuovi turbo-nazionalismi aprì occhi e orecchie ad ogni occasione che potesse innescare vitalità positiva: il mondo delle «nuove» musiche afroamericane giocò una parte decisiva, al pari delle effervescenze culturali della Repubblica di Weimar, della nascita del Bauhaus su ispirazione di Walter Gropius.
NEW ORLEANS
Louis Armstrong, ad esempio, nel 1919 aveva diciotto anni, ed era ancora a New Orleans. Da un annetto poteva suonare, con grinta e competenza, all’ombra del suo maestro venerato Joe Oliver nelle bande festose che attivavano per le strade della città «più a Sud degli Stati Uniti», e «più a nord dell’America latina». Lui suonava con la possente Tuxedo Brass Band di Oscar Celestin, e già la parola «jazz» per quelle note cominciava a passare di bocca in bocca, a sostituire tutte le varianti possibili di invenzioni sull’altra parola magica: rag. Nel 1919 un paio di fatti importanti contribuiscono a proiettare il giovanissimo Louis Armstrong in un futuro di successi incalzanti quali non si erano mai visti, in quel mondo di durissimo artigianato musicale: il primo fatto importante è che King Oliver se ne va a Chicago, e il posto del «re» nella ruggente band diretta dal trombonista Kid Ory lo prende lui. Un posto al sole, ma che implica aumento dello studio, della disciplina, della formazione. Il 1919 è anche l’anno in cui Louis, ancora non conosciuto come Satchmo, comincia anche a lavorare sui battelli a vapore che solcano con le grandi pale il re dei fiumi, il Mississippi. L’ha chiamato un pianista nero come Louis che nella vita ha scelto di suonare uno strano strumento che si chiama Calliope: una tastiera che produce un suono potente, in pratica una specie di harmonium-organo a canne a vapore, inventato a metà del secolo precedente. Il capo orchestra è Fate Marable, e lì Louis impara la dura routine di chi deve saper leggere a prima vista centinaia di pezzi diversi, e di diverso genere. Altro che il «musicus naturalis» delle biografie farlocche, a cui tutto sarebbe sgorgato d’istinto. Il 1919 come l’anno della vera palestra, per Armstrong: il resto, a partire dalla chiamata di King Oliver per andare a suonare nella competitiva e dura Chicago degli anni Venti parte da lì.
NEW YORK
Louis Armstrong, nella sua collezione di 78 giri comprati uno a uno da ragazzino mettendo via i cent faticosamente messi in fila uno dopo l’altro con mille lavoretti, aveva anche quelli della Original Dixieland Jazz Band. Che aveva nel frattempo conquistato New York e una bella fetta di mercato discografico cavalcando l’entusiasmo per quella frustata di energia che scuoteva corpi e coscienze: perché i brani eccessivi, indiavolati, pieni di trovate sorprendenti, kitch e ad effetto della Original (che tanto «originale» poi proprio non era) furono capiti quando cominciarono a funzionare per il loro vero fine: essere ballati, seguendo la serie di movenze strane, quasi da rockstar ante litteram che i musicisti della Original, a partire dal trombettista Nick La Rocca, inanellavano secondo un copione fisso, ma decisamente sorprendente per un pubblico assetato di novità.
Nel 1919, quando finalmente tacciono i cannoni, la Original Dixieland Jazz Band per la prima volta attraversa l’oceano, sulla RMS Adriatic, e propone un «tour» a orecchie e occhi che il jazz hanno potuto solo sentirlo raccontare. Non ha più il suo pianista originale, Henry Ragas, un’altra delle vittime della febbre spagnola, al suo posto c’è J. Russell Robinson.
La meta è l’Inghilterra. Il debutto a Londra è il 7 aprile 1919: in una rivista intitolata Joy Bells. Botta immediata di successo. Rapido spostamento a Glasgow, rientro a Londra per suonare davanti a seimila persone: roba da rockstar in anticipo sui tempi. A giugno è la Original l’orchestra ufficiale del Ballo della Vittoria (alla presenza dei reali inglesi) che festeggia la vittoria dell’Inghilterra e la fine della guerra mondiale. Per i reali suoneranno anche in privato a una Command Performance. Alla fine saranno diciassette mesi di trasferta, che portano in dote anche una ventina di nuovi brani incisi, e la nascita di un clamoroso fenomeno di emulazione, mano a mano che la fama del gruppo filtra dall’Inghilterra in Europa, e oltre: basti ricordare che nel 1919 anche a Milano c’è un gruppo di emuli, l’Orchestra del Trianon che a loro s’ispira per incidere At the Jazz Band Ball.
LONDRA
Il ’19 è anche l’anno in cui arriva a Londra il clarinettista creolo Sidney Bechet: è il pezzo forte dell’Orchestra diretta da Will Marion Cook, un nero che ben maneggiava anche l’alto artigianato musicale del nuovo musical.
Chi invece rientra in patria festeggiato come un eroe, nel febbraio del ’19, è James Europe con la sua 369 Infantry Hell Fighters, musicisti tutti neri che hanno conosciuto le trincee, e fatto conoscere l’alfabeto di base del ragtime orchestrale ai francesi e agli inglesi tra una cannonata e l’altra: nel ’19 Europe incide ventiquattro brani a New York. La notte del 9 maggio uno dei suoi batteristi, convinto di essere messo sotto tiro da Europe lo accoltella. Sembra una ferita superficiale, lui dice alla band di continuare a suonare, ma nella notte, ricoverato, muore dissanguato all’ospedale. Così se ne va la musica palpitante di un’epoca.
Intanto, sempre nel ’19, si sta facendo spazio un’altra famiglia di note afroamericane, il blues: il grande Lonnie Johnson, dopo aver soggiornato per ben tre anni in Inghilterra, suonando nelle basi inglesi per le truppe americane torna in patria, a New Orleans. La sua famiglia se l’è portata via la febbre spagnola, e lui da tutte quelle esperienze ne caverà decine di blues con il cuore in mano, diventando anche uno dei primi grandi chitarristi di confine, tra jazz e blues. Memorabili incisioni con Louis Armstrong, e con Eddie Lang, un bianco che suonava i blues come se fosse nero: all’anagrafe era Salvatore Massaro.