Da quando il pianeta è stato travolto dall’epidemia di coronavirus abbiamo tutti imparato a convivere con termini come cura, guarigione, malattia, salute. Termini che ricorrono nelle letture, nelle conversazioni e nei pensieri quotidianamente e ossessivamente.
Questa nuova condizione ci costringe ad interrogarci sui nostri stili di vita e i nostri modelli di sviluppo. Se ancora per qualcuno non era evidente con l’emergenza climatica e la devastazione ecologica che avremmo dovuto modificarli per salvare noi e le future generazioni adesso la questione è sotto gli occhi di tutti.
La musica è sempre stata considerata un potente agente sulla nostra salute psichica e fisica e la sua presenza nelle pratiche di guarigione individuali e collettive lo testimonia.
«La musica è la forza guaritrice dell’universo/ogni tanto la nostra anima ha bisogno di una medicina spirituale/Non c’è sempre bisogno di farmaci/basta solo che tu apra il tuo cuore e la tua anima e che la lasci entrare». Così declamava Mary Maria Parks nel brano Music Is the Healing Force of the Universe, contenuto nell’omonimo album di Albert Ayler pubblicato dalla Impulse! nel 1970. Ayler lo aveva registrato nella calda estate del 1969 quando il mondo intero stava esplodendo di rabbia e di gioia. Il sassofonista aveva da un paio d’anni impresso una robusta torsione alla sua carriera e aveva imboccato la via di una fusione tra il suo free jazz e i vapori lisergici della psichedelia rock e i ritmi del funk. Musica come guarigione. Musica come terapia contro il malessere psico-fisico del mondo.

IL SUONO DEL CUORE
Sulla dimensione spirituale della musica ha condotto una interessante, e unica nel suo genere, serie di conversazioni il chitarrista Garrison Fewell (1953-2015). Il musicista, apprezzato docente e raffinato improvvisatore, si era dedicato negli ultimi anni della sua vita, quando un tumore lo aveva colpito, ad esplorare le potenzialità terapeutiche della musica anche in relazione con la sua pratica del buddismo. Queste conversazioni sono state pubblicate nel libro Lo spirito della musica creativa. Dialoghi con i protagonisti dell’improvvisazione (Auditorium) e raccolgono i dialoghi con musicisti come William Parker, John Tchicai, Dave Burrell, Wadada Leo Smith, Henry Threadgill. Tra le tante e stimolanti osservazioni contenute nel volume quella che ha per protagonista il batterista Milford Graves (1941-2021) è particolarmente interessante per le implicazioni che riguardano la musica come terapia. Lo storico batterista, scomparso nel febbraio di quest’anno, fu collaboratore di Ayler, oltre che membro del seminale New York Quartet con John Tchicai, Roswell Rudd e Lewis Worrell.
Racconta Graves: «Quando ho iniziato a registrare i suoni del cuore, ho sviluppato dei programmi per computer. Ho cominciato volendo solo conoscere il pitch, l’altezza o l’intonazione che cambia nel suono di un cuore. Ho chiamato questo dottore che ha scritto un articolo su una rivista di cardiologia sulla frequenza del primo e secondo suono del cuore. Abbiamo avuto una discussione di tre ore. Diceva che stava cercando di introdurre i cardiologi all’analisi del cambiamento di intonazione nei suoni del cuore. Diceva che nessuno di loro voleva sentirne parlare perché non erano musicisti. Mi disse che c’è una maniera di analizzare queste particolari frequenze e sarebbe stato fatto digitalmente (…) Quello fu l’inizio della mia analisi sui suoni del cuore. Frequentavo la libreria Barnes & Noble a Manhattan e andai al reparto scientifico, dove trovai una registrazione di quei suoni fatta per scopi medici. Quando ho messo quella registrazione, ho preso il telefono e ho chiamato tutti i batteristi che conoscevo. Ho detto loro: è davvero stupefacente, ho ascoltato tutti questi suoni cardiaci, queste differenti aritmie, e sono esattamente ciò che fanno in tutti questi bata drumming e santeria yoruba. Non so dove li abbiano presi questi tipi ma vanno a stimolare proprio ciò che è già nel nostro corpo. Questo fu per me l’inizio di qualcosa. Ciò che sto facendo ora è estrarre tutte le frequenze del suono di un cuore e analizzarle, quindi cerco di stimolare i neuroni e le reti neuronali. L’ho fatto con William Parker. Ho registrato il suo cuore e l’ho risuonato: ti assicuro che il suo cuore suona come il suo contrabbasso (…) Ho detto la stessa cosa ai musicisti cubani, suonano musica collegata al loro cuore. Tutto sta lì (…) Se vogliamo usare la musica da una prospettiva curativa, se vogliamo essere in sintonia e avere la corretta risonanza con il modo in cui il corpo oscilla, allora dobbiamo ripensare alla maniera in cui facciamo musica, al modo in cui l’ascoltiamo».

LE FERITE DELLA VITA
Alcuni fumetti recenti riprendono il tema del rapporto tra musica e cura sviluppandolo narrativamente. Elena Abbott è una giornalista investigativa che si muove nella Detroit degli anni Settanta. La protagonista della miniserie uscita negli Usa nel 2018 scritta da Saladin Ahmed e disegnata da Sami Kivelä è alle prese con una misteriosa serie di violenze e omicidi in una città stretta nella morsa del razzismo. Devastata dal dolore per la perdita dell’amante, ucciso in circostanze inquietanti, la vediamo rientrare a casa e rilassarsi mettendo sul giradischi un lp di John Coltrane. Si tratta di A Love Supreme, il capolavoro del sassofonista, una preghiera in musica in quattro movimenti che è divenuta una pietra miliare del jazz. In un’altra scena è il disco Blue Train, sempre di Coltrane, a offrire una momentanea fuga dalla amarezza per essere stata licenziata a causa delle sue indagini. La musica come balsamo e anestetico per lenire, seppur momentaneamente, il dolore delle ferite della vita.

METAFORE
Fin qui da un punto di vista individuale, però esistono anche usi collettivi come è il caso della serie Bitter Root, creata da David F. Walker, Chris Brown e Sanford Greene e accolta al suo apparire nel 2019, giustamente, da un grande successo di critica e pubblico. Il fumetto è ambientato durante gli anni Venti del Rinascimento di Harlem, qui ricreato con una estetica steampunk. La famiglia black Sangerye combatte da generazioni contro i malvagi Jinoo, esseri divorati dall’odio razziale che li trasforma in belve sanguinarie. In questa lotta secolare si inseriscono nuovi mostri, gli Izondo, animati da un odio uguale e contrario. Tra fantascienza, horror e pamphlet sociale il fumetto elabora una avvincente metafora delle tensioni razziali negli Stati Uniti e una convincente riflessione sulle radici storiche e culturali dell’odio. Il contagio dell’odio avviene tramite morsi o graffi e per contenerne gli effetti i Sangerye utilizzano un siero che solo loro possiedono. In una scena due Sangerye vanno in un teatro dove si sono radunati gli afroamericani contagiati in cerca di consolazione e di aiuto. I due somministrano il siero mentre una band di jazz suona e la cantante implora dio con uno struggente «Help Me, Please, Help Me». La musica è la forza guaritrice dell’universo.
Ma se la musica può essere la cura può anche essere la malattia. Immaginare che essa sia il tramite di un contagio tra le persone e consentire a entità di altre dimensioni di conquistare la Terra è l’idea che è sviluppata in un episodio della saga fantascientifica britannica Doctor Who a firma di Nick Abadzis e illustrata da Giorgia Sposito e Eleonora Carlini. Nell’episodio Sins of the Father, il Decimo Dottore viaggia nel tempo e approda nella New Orleans degli albori del jazz. Qui fronteggerà Nocturne, un mostro alieno che tenta di conquistare il mondo attraverso il jazz. Quando la malefica entità scopre la nascente industria discografica cercherà di fare incidere un disco a due musicisti che ha posto sotto il suo controllo in modo che questo sia il veicolo del contagio mondiale. Il dottore, e i suoi compagni, però riusciranno a salvare l’umanità al termine di un tragico scontro.

ASTRODETECTIVE
Da un virus malefico a uno benefico; quello che dà il via al visionario e iperbolico romanzo Mumbo Jumbo di Ishmael Reed, testo capitale della moderna letteratura afroamericana. Jes-Grew è lo strano morbo che ha infettato l’America e su cui sarà chiamato ad indagare il l’astrodetective Papà LaBas. L’epidemia si rivela quando la gente fa «cose stupide e sensuali», in uno stato di agitazione incontrollabile, si dimena come pesci, facendo qualcosa chiamato «il rock dell’aquila» e la «sculettata». Come nel 1890 era stato con il ragtime adesso la stessa cosa avviene con il jazz. Così la descrivono allarmati i politici nelle prime pagine del romanzo: «Vedi, non è uno di quei germi che rompono, dissanguano, succhiano, rodono e divorano. Non è qualcosa che siamo in grado di mettere a fuoco o classificare; una volta che la chiamiamo in un modo prende un’altra forma, No, amico. No, questa è un’epidemia psichica».
Reed, romanziere, poeta e saggista, ha una lunga e proficua relazione con la musica. Da giovane suona il violino e il trombone ma è proprio nella sua attività letteraria che la musica, il blues e il jazz, entrerà prepotentemente fino a divenire, con Mumbo Jumbo, ispirazione ed elemento centrale della narrazione. Sono da segnalare le sue collaborazioni con il musicista e produttore Kip Hanrahan nel trittico sotto la denominazione Conjure, dove Reed è in veste di autore dei testi e voce narrante, insieme a una bella schiera di musicisti come Taj Mahal, David Murray, Carla Bley, Steve Swallow, Lester Bowie, Allen Toussaint, Billy Bang. Nel primo volume della serie, Music for the Texts of Ishmael Reed, pubblicato come gli altri due dalla American Clavè, trovano posto brani direttamente ispirati al grande romanzo che secondo il critico Marcello Lorrai «presenta una musica di taglio blues e funk ma sempre non convenzionale, con alcuni brani di grandissimo effetto a cominciare da Jes’ Grew, composto da David Murray». Per chi volesse approfondire consigliamo di leggersi l’intero intervento di Lorrai contenuto ne Il grande incantatore. Per Ishmael Reed, a cura di Giorgio Rimondi, pubblicato da Agenzia X, con alcuni bei testi di studiosi e una selezione di liriche.

FUORI I DISCHI

Albert Ayler, Music is the Healing Force of the Universe (Impulse)
Questo disco di Albert Ayler è il risultato della sua ultima sessione di registrazione nell’agosto del 1969 prima della morte, probabilmente per suicidio, del geniale sassofonista nel novembre dell’anno successivo. Da quella stessa seduta usciranno anche i brani di The Last Album pubblicato però postumo. Con il musicista c’erano Mary Maria Parks, sua compagna negli ultimi tempi e autrice delle liriche, il pianista Bobby Few, i bassisti Bill Fowell e Stafford James e il batterista Muhammad Ali. Vennero sovraincise parti alla chitarra da Henry Vestine, musicista del popolare gruppo rock blues Canned Heat. Il disco si attirò critiche violente e, a conti fatti, ingenerose. Nell’ultimo periodo Ayler si era gettato nella ricerca di fusioni inedite tra strumenti (come la cornamusa) e stili scandalosamente eretici per la chiesa del jazz, persino per quella «riformata» del free tanto da meritarsi in occasione dell’uscita del controverso New Grass (Impulse, 1968) la presa di distanza di Amiri Baraka, un tempo suo fervido sostenitore, che allora disse laconicamente: «Il fratello Albert si è perso». Pur non essendo tra i migliori della sua discografia questo disco ha però una purezza di intenzione e uno spirito di ricerca genuino che sono stati giustamente rivalutati come dimostra la bella e turgida rilettura contenuta in Healing Force. The Songs of Albert Ayler (Cuneiform Records, 2007) ad opera di un settetto guidato dal chitarrista Henry Kaiser.

Garrison Fewell-Maurizio Brunod, Unbroken Circuit (Caligola)
Il chitarrista, compositore e docente Garrison Fewell è abbastanza conosciuto in Italia per avere vissuto per un lungo periodo tra Boston e Bergamo. Musicista dalla solida preparazione tecnica si è dedicato nella parte conclusiva della carriera alla ricerca sull’improvvisazione partecipando e guidando ensemble tra i quali in particolare va segnalato il Variable Density Sound Orchestra. Notevole è la sua collaborazione con il sassofonista afro-danese John Tchicai con il quale ha inciso parecchi dischi tra i quali lo splendido Tribal Ghost (No Business Records) registrato dal vivo al Birdland. In questa sua ultima incisione prima della scomparsa lo troviamo in compagnia di un altro chitarrista, il piemontese Maurizio Brunod, già nei longevi Enten Eller. Nei quarantadue minuti del cd ci sono cinque dialoghi tra i due, incorniciati da due versioni del bel brano, a firma di Fewell, Ayleristic, omaggio all’arte e al pensiero libertario del sassofonista di Cleveland. L’improvvisazione come meditazione collettiva e ricerca spirituale.

John Coltrane, A Love Supreme (Impulse)
A Love Supreme è uno di quei dischi che non può mancare in ogni, seppur minima, discoteca di jazz ed è stato realizzato con il suo quartetto classico completato da McCoy Tyner al pianoforte, Jimmy Garrison al contrabbasso e Elvin Johns alla batteria. Nel disco registrato dal mitico Rudy Van Gelder nel dicembre del 1964, una suite in quattro parti: Acknowledgement/ Resolution/Pursuance/Psalm. La musica è strutturata come una preghiera e coglie il quartetto alla sua massima potenza espressiva prima delle esplorazioni siderali di Coltrane degli anni successivi. La quattro note che compongono il motivo iniziale, riprese dalla voce di Coltrane che canta le parole A Love Supreme sono entrate nella storia della musica. Si consiglia la De Luxe Edition, che contiene anche la performance dal vivo al Festival di Antibes nel luglio 1965 e alcune versioni alternative tra cui due dove si aggiungono al quartetto il sax di Archie Shepp e il contrabbasso di Art Davis. Sulla genesi del lavoro si può leggere il saggio di Ashley Kahn, A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane (Il Saggiatore).

Conjure, Music for the Texts of Ishmael Reed (America Clavè)
Questo primo capitolo del trittico Conjure dedicato all’arte dello scrittore e poeta Ishmael Reed contiene un bel po’ di Great Black Music, variamente dosata tra blues, funk in stile New Orleans (decisiva la presenza del pianista e cantante Allen Touissant), canzoni alla Kurt Weill come la splendida Oakland Blues resa magistralmente dalla voce di Robert Jason e dalla tromba di Olu Dara. E poi umori caraibici, grandi soli del sax di David Murray, la voce di Taj Mahal e la tromba sardonica di Lester Bowie. Impossibile citare tutti i musicisti coinvolti, tutti di prima grandezza. Contagioso come il morbo «buono» del romanzo Mumbo Jumbo.