Nella sua 41a edizione il Roma Jazz Festival (direttore artistico Mario Ciampà) esplora i rapporti tra musica di ispirazione afroamericana e spiritualità: terreno fertile ma scivoloso. «Oggi, il jazz … (è) una lingua franca, parlata da musicisti di tutto il pianeta. In un clima politico – recita il comunicato stampa del RJF – come quello attuale, lacerato da conflitti etnico-religiosi, c’è più che mai bisogno di un simile esperanto comune, che aiuti a superare barriere ideologiche e politiche in nome di una comune spiritualità: quella della musica». Così la rassegna (5-30 novembre) si svolge in vari luoghi (Parco della Musica; Casa del Jazz, Alcazar, il Pitigliani, Sacrestia del Borromini, S.Nicola da Tolentino, il Pantheon) «scelti con il criterio di maggior suggestione, riflessione, per ognuno dei progetti».

Il recital di Gabriele Coen – polistrumentista e compositore romano – è il terzo appuntamento della rassegna. Il suo quintetto ha chiuso il concerto dell’8 al Pitigliani Centro Ebraico Italiano con Malkuth, brano ispirato al più «terrestre» dei livelli kabalistici. Fortemente radicato nella tradizione, Sephirot. Kabbalah in Music è un progetto (ed un cd) che musicalmente guarda al Miles Davis elettrico come a Electric Masada di John Zorn (che ha prodotto per la sua Tzadik un album di Coen). La musica muta nei vari livelli cabalistici, mantenendo un impianto modale e combinando chitarra-piano elettrico con le tre ance del leader, magistrale soprattutto al soprano ed al clarinetto. In un repertorio eccellente emergono Binàh (intelligenza, la sfera femminile) e Tifèret (bellezza, il cuore) ma in ogni brano risaltano il sovrapporsi e fondersi di fiati e chitarra, la marcata personalità dei temi e l’alternarsi dei ritmi. All’Auditorium si è inaugurata la mostra fotografica di Pino Ninfa Jazz Spirit: 52 scatti in b/n che indagano la scena sonora, dove «ogni cosa si muove in una sorta di danza». Ninfa tratteggia una personale geografia della visione/narrazione, basata su un’accurata conoscenza di luoghi-storie-musicisti: visionario – però – è il suo «scarto iconico», uno sguardo onirico che comprende e trascende la musica. Il «jazz spirit» vive negli scatti del fotografo in un senso laico in cui il «trascendente» affonda nell’ «immanente».

«Peace, love and ethio-jazz» è il titolo della serata del 12 (auditorium, sala Petrassi) dedicata al compositore e polistrumentista (vibrafono, Wurlitzer e percussioni) Mulatu Astatke, di origini etiopi. Il 74enne musicista ha guidato il settetto degli Steps Ahead dalle marcate individualità, dal piano del geniale Alexander Hawkins all’incisiva tromba di Byron Wallen. È, tuttavia, un disegno collettivo e policromo quello che emerge, innervato da un’ampia sezione ritmica ed arricchito da temi suadenti (Yekermo Se) e da lunghe improvvisazioni modali (Mulatu). Jazz, tradizioni sonore del Corno d’Africa e ritmi latinoamericani danno vita ad una musica ancora oggi innovativa e meticcia, interculturale nel senso più profondo. «Jazz Is My Religion»…