Jazz e fumetti, lo specchio degli Usa
Fenomeni/Due generi che dagli anni Quaranta si sono intrecciati raccontando impeti progressisti e lati oscuri di un paese Alcuni albi inscenavano parabole su lotte di classe e superiorità morale dell’artista. Storie e biografie dei musicisti servivano per parlare di razzismo, patriottismo, integrazione
Fenomeni/Due generi che dagli anni Quaranta si sono intrecciati raccontando impeti progressisti e lati oscuri di un paese Alcuni albi inscenavano parabole su lotte di classe e superiorità morale dell’artista. Storie e biografie dei musicisti servivano per parlare di razzismo, patriottismo, integrazione
Si è più volte scritto di come jazz e fumetti siano da considerarsi come il maggiore contributo originale alle arti da parte degli Stati Uniti. Naturale quindi aspettarsi che proprio da loro si possano trarre informazioni sugli aspetti socio-culturali della storia statunitense.
Un esempio di come entrambi i generi possano essere un sismografo delle tensioni che animano la società lo offrono alcune pubblicazioni tra gli anni Quaranta e i primi Cinquanta quando le spinte e controspinte tra l’onda lunga del modello progressista rooseveltiano e la reazione conservatrice del dopoguerra si contendono l’identità Usa. Il dibattito pubblico sui valori fondativi della nazione investe l’apparato simbolico di cui è imbevuto l’immaginario collettivo, ambito nel quale l’apporto del jazz e dei fumetti è di assoluta rilevanza.
Possiamo cominciare la nostra analisi di questa auto-rappresentazione con My Time-Jazz Romance (Dream Book of Romance, numero 5, Charlton 1953) nel quale una ragazza dell’alta società si innamora di un jazzista. Accolto dai genitori di lei deve però constatare i pregiudizi di classe di un mondo nel quale contano le discendenze familiari. Il musicista reagisce fieramente rivendicando le proprie umili origini («mio padre è il miglior idraulico di Brooklyn») e abbandonando fidanzata e lavoro nell’azienda di famiglia («Io sono un musicista. Nel mondo dal quale provengo non conta chi sono i miei antenati ma quello che so fare»). L’happy ending li vedrà ricongiunti nel segno dell’amore e del trionfo del mito ottimistico di una nazione dove ognuno può avere accesso al successo a prescindere dalle origini. Una apologia di un modello inclusivo che ha però non poche contraddizioni a partire dalla sua natura intrinsecamente competitiva.
A riprova di quanto sia sentito il tema esso ritorna anche in Just No Good (Young Romance, numero 18, febbraio 1950) della magnifica coppia Joe Simon e Jack Kirby. Questa volta il clarinettista Buddy Vance entra in crisi e progetta di lasciare la musica per «un lavoro regolare, una piccola casa, metterci dentro una moglie e dei figli che lo attendano a casa tutte le sere». Ma la fuga dal mondo vagabondo del jazz dura poco perché la famiglia della ragazza con cui vorrebbe realizzare il suo sogno di normalità lo rifiuta per le sue origini. Buddy capisce allora che il jazz è il suo mondo e la ragazza per lui è la cantante che lo aveva sempre amato. Al di là della bellezza dei disegni di Kirby, che darà forma ai supereroi Marvel negli anni ’60, la storia ci consegna ancora una volta una parabola sulle differenze di classe e sulla superiorità morale del mondo del jazz dove ogni uomo può realizzare il sogno americano scritto nella Costituzione del 1776 dai Padri Fondatori: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità».
GUERRA CIVILE
Uno dei caratteri dell’identità americana è il patriottismo. Forgiato in una lunga e sanguinosa guerra civile per l’indipendenza e corroborato in una serie di conflitti a catena esso è una delle componenti essenziali nel dibattito politico e ideologico. Non c’è figura più adatta del direttore d’orchestra Glenn Miller per incarnare il connubio tra jazz e amor patrio. Miller, all’apice del successo commerciale, decise di formare una big band a supporto delle truppe impegnate nella seconda guerra mondiale. I suoi concerti servirono contemporaneamente ad alzare il morale dei soldati e come straordinario veicolo di propaganda. Anche grazie ai V-Disc distribuiti ai militari e tramite loro alle popolazioni dove stazionavano, la sua musica divenne la colonna sonora delle armate statunitensi; i messaggeri della libertà dalle dittature nazifasciste a suon di swing.
Gli arrangiamenti accattivanti, il suono scintillante e l’irresistibile ritmo danzante resero immensamente popolare questo musicista. A suggello della sua vicenda ci fu la morte nel 1944 durante un volo aereo che lo rese un personaggio perfetto per incarnare l’eroe che sacrifica successo, soldi e infine la vita per la patria. La sua storia è raccontata in Glenn Miller. The Fighting Band-Leader con una particolare insistenza sugli aspetti economici. Nella prima tavola il nostro eroe rinuncia a 15mila dollari per suonare in una base d’addestramento; nella terza tavola un giornalista esprime soddisfazione per questo artista che «scioglie la sua band da un milione di dollari per formare un battaglione per lo Zio Sam» e nella successiva si sottolinea come abbia contribuito con i suoi concerti a raccogliere tre milioni di dollari per i titoli di guerra. Tre citazioni in cinque tavole! Evidentemente l’autore ritiene fondamentale sollecitare il nervo materialistico piuttosto che quello ideale.
In Frank Sinatra. Chokes Racial Bigotry at the Grass Roots la star italoamericana è impegnato in prima persona a redarguire alcuni ragazzi che molestano un coetaneo ebreo perché di religione diversa. Sinatra spiega loro che suo padre viene dall’Italia ma non per questo odia i loro genitori perché vengono dall’Irlanda, dalla Francia o dalla Russia. Poi racconta una storiella sulla guerra di come un bombardiere distrusse una corazzata giapponese nel Pacifico e come il pilota fosse un americano e presbiteriano e il puntatore un americano ebreo. Tutti uniti per il medesimo obiettivo sotto la bandiera a stelle e strisce. L’ultima didascalia recita: «Non c’è spazio per l’ipocrisia nella democrazia». Questa storia è illuminante perché in primo luogo rivela la persistenza del pregiudizio antisemita negli Stati Uniti; non erano pochi infatti i simpatizzanti del nazismo negli Usa a partire dall’industriale Henry Ford e dal pilota Charles Lindberg. In secondo luogo propone una visione della democrazia di tipo inclusivo e tollerante. In generale tutto il clima dell’albo contenente questo fumetto è all’insegna dell’ottimismo immediatamente post bellico. Sono brevi storie che raccontano i crimini nazisti, mettono alla berlina la violenza sulle donne, si schierano a favore del controllo delle armi nucleari tra le superpotenze per salvare la civiltà dalla distruzione. In una vignetta ci sono Truman e Stalin sorridenti e cordiali. Ma durerà poco. Già qualche anno dopo inizierà la contrapposizione tra Usa e Unione Sovietica, la caccia alle streghe del maccartismo e una regressione spaventosa nella cultura e nella politica.
DIBATTITO IDEOLOGICO
A conferma di come il jazz sia entrato nel dibattito ideologico della Guerra Fredda vi è una illuminante storia, Trumpet of Death, apparsa sul primo numero di G.I. Combat della Quality nell’ottobre 1952, in piena guerra di Corea. Un contingente americano è impegnato in combattimento e Fordie, un trombettista jazz di New Orleans, è tra i soldati. Fordie ruba la tromba a un nemico e salva il suo reparto suonandola anche se perisce nella battaglia. Un commilitone commenta così il suono di Fordie: «Deve essere Fordie. Nessun comunista potrebbe suonare in modo così dolce e profondo».
Il jazz diventa cioè un tratto distintivo dell’identità americana arruolato a forza nella crociata anticomunista che assume anche venature di razzismo anti-asiatico. Naturalmente Fordie è bianco e il jazz di cui si parla è quello tradizionale di Basin Street Blues e When the Saints Go Marchin’ in ; assai lontano dalla problematicità, anche politica, di quello contemporaneo alla vicenda.
Non tutti i fumetti però sono asserviti a questa visione. In una serie di comic book tra il 1945 e il 1948 sembrano essere invece integrazione razziale e progressismo i valori dominanti. Una nazione esaltata dalla vittoria sulle dittature nazifasciste e l’imperialismo giapponese, orgogliosa della propria democrazia, fiduciosa in un futuro che si prospetta gravido di progresso economico e culturale. Art Tatum (True Sport Picture Stories, volume 3 numero 3, ottobre 1945) racconta la passione del grande pianista afroamericano per lo sport e non può sfuggire una vignetta dove sono ritratti intenti a giocare a biglie bambini bianchi e neri. È solo un disegno ma se pensiamo al periodo e alla totale segregazione nei fumetti dell’epoca suona come una frustata iconica e un auspicio.
Let Them Make Music by Duke Ellington (Taffy, numero 7, aprile 1947) sono solo due tavole dove il compositore e bandleader afroamericano spiega l’importanza dell’educazione scolastica per fare emergere i talenti dei giovani. Il disegno raffigura il musicista insieme a un’insegnante bianca e a due giovani: una ragazza nero e un ragazzo bianco. Qui si fa un passo ulteriore indicando nell’educazione integrata il futuro del paese. Per capire il clima culturale durante il quale escono questi fumetti bisogna tenere conto che la segregazione era applicata, per legge o di fatto, sia al Sud che al Nord. La rappresentazione di personaggi afroamericani nei comics era praticamente assente oppure confinata agli stereotipi degradanti della mamie, del portiere d’albergo o del campagnolo sciocco e credulone. Solo a partire dagli anni Sessanta, sull’impetuosa spinta del Movimento per i Diritti Civili, faranno la loro prima comparsa nel fumetto mainstream personaggi neri dotati di dignità e ambientazioni interraziali.
YES YOU CAN
Se ti impegni per migliorarti ce la puoi fare. Questo è un altro caposaldo dell’identità americana. Può essere applicato nella versione in negativo; ovvero chi resta indietro, chi è povero, disoccupato, emarginato è perché non si impegna. È la narrazione della destra dei Reagan e dei Trump. Oppure in positivo; ossia le diseguaglianze non sono frutto di un disegno divino o di un portato biologico, se l’uomo si impegna si possono superare. È la narrazione dei Roosevelt, Kennedy e degli Obama.
A quest’ultima declinazione si ispirano le biografie dei musicisti dei sei albi Juke Box Comics pubblicati tra il marzo 1948 e il gennaio 1949. Oggi viviamo una stagione di grande vivacità del giornalismo a fumetti però è bene sapere che questo genere ebbe la sua nascita proprio durante quella che è conosciuta come la Golden Age dei comics tra il 1938 e il 1955. Affollarono allora le edicole pubblicazioni che raccontavano personaggi e fatti storici, notizie d’attualità, campioni dello sport, eroi del cinema e della musica. Tra queste pubblicazioni Juke Box Comics ha un ruolo particolarmente interessante per la nostra trattazione. Ogni numero bimestrale conteneva brevi storie umoristiche, racconti, partiture delle canzoni in voga e recensioni delle novità discografiche. Ma la cosa più straordinaria erano le storie sui musicisti; non solo jazzisti naturalmente ma in gran parte.
In qualche caso ai musicisti viene chiesto di raccontare episodi curiosi o divertenti della loro carriera: il band leader Ted Weems perde e ritrova un giovane talento della tromba a causa di due incidenti automobilistici ,il giovane e scaltro Larry Adler cambia al volo il suo repertorio dal blues a Beethoven durante una gara quando si accorge che i giudici provengono da una scuola di musica classica. In altri la storia si colora di avventura: Woody Hermann smaschera un falso agente che ha truffato gli studenti per un ballo scolastico; Benny Goodman fa lo stesso con una sedicente Scuola di Swing gestita da gangster che sgomina a cazzotti; Count Basie si tuffa e salva sul fondo marino il suo amico rimasto impigliato in una roccia grazie alla forza delle sue mani allenate al pianoforte; Stan Kenton recupera in modo rocambolesco l’incasso di un concerto di beneficenza per un orfanotrofio femminile trafugato da due loschi figuri e ne evita così la chiusura.
PIENA CITTADINANZA
I musicisti afroamericani hanno piena cittadinanza: Duke Ellington può affermare di essere fiero della sua collezione di 800 volumi sulla storia dei neri che lo hanno ispirato a scrivere la suite Black, Brown and Beige.
Rivolgendosi ai giovani queste storie hanno un evidente intento pedagogico. Si tratta non solo di raccontare personaggi amati dai teenager ma soprattutto di comunicare, con uno stile leggero e accattivante e l’uso dell’ampia aneddotica, un messaggio positivo. Dei musicisti si evidenziano in particolare le umili origini ( Lionel Hampton comincia facendo il barista, Benny Goodman proviene da una modesta famiglia con dodici figli, Ella Fitzgerald ha passato l’infanzia in orfanotrofio), la tenace volontà di affermarsi studiando e lavorando sodo, l’onestà unita alla passione per la musica. Le storie trasudano ottimismo da tutte le tavole.
Tutto questo luminoso mondo delle opportunità sappiamo bene come debba per forza celare un lato oscuro. A svelare la natura profonda del capitalismo Usa ci pensa un fumetto pubblicato su quegli albi horror così temuti da finire al centro della campagna che porterà al famigerato codice di autocensura Comics Code nel 1954.
Nella storia Jazz (Witches Tales, numero 20, 1951) il trombettista Les Trayne si propone all’agente di spettacolo Mr. Whipple. Quest’ultimo riconosce immediatamente l’abilità tecnica del musicista ma contemporaneamente anche la totale mancanza di feeling, ispirazione e profondità; le vere essenze del jazz. Incuriosito lo segue nelle sue performance fino a smascherarlo e distruggerlo: il trombettista non è altri che un robot. Nella scena finale però il lettore apprende che anche l’agente è un robot.
La disumanizzazione del mondo del jazz qui messa in scena proietta la sua ombra sinistra sull’intero sistema di produzione della società. Il sistema economico del jazz è nei suoi due protagonisti/produttori privato delle sue qualità umane e confinato alla sola dimensione della produttività fine a se stessa. Sembra quasi un piccolo trattato marxista. Operazione sovversiva come poche la narrazione horror permette di rivelare attraverso le metafore del fantastico, del soprannaturale e del futuribile ciò che altrimenti sarebbe indicibile con il realismo.
Vale per gli zombie di George Romero e per la creatura acquatica di Guillermo Del Toro ne La forma dell’acqua come per gli automi di questa piccola e sulfurea novella a fumetti.
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