In Italia, la storia del jazz su libro si snoda come un racconto lungo novant’anni: è il 1931 quando il compositore, già futurista, Alfredo Casella, al ritorno da un viaggio in Nordamerica, edita 26+21, una serie di saggi (poi ristampati nel 2001) in cui, tra l’altro, discute positivamente di alcune jam session ascoltate nei localini di Harlem.
Pubblicato nel 1938, pochi mesi prima delle leggi razziali, Introduzione alla vera musica jazz di Gian Carlo Testoni ed Ezio Levi risulta invece il primo riuscito tentativo, in Italia, di collocare i «ritmi sincopati» in una luce storico-critica, che denota passione ed entusiasmo e soprattutto evita calunnie, personalismi, bugie, svarioni, come accade, solo un anno prima, a Il jazz dalle origini a oggi di Augusto Caraceni. Da allora a oggi è un susseguirsi, più o meno costante, di libri sulla storia di una musica, il jazz, che simboleggia, nell’Italia liberata, l’idea di modernità, progresso, sofferta emancipazione. Nell’euforia culturale che, ad esempio in letteratura, corrisponde all’amore per la narrativa americana da parte di scrittori come Cesare Pavese ed Elio Vittorini, vengono, negli anni Cinquanta, tradotte importanti «storie» statunitensi da Il jazz di Iain Lang e Storia del jazz di Marshall W. Stearns (incentrati entrambi soprattutto sulle origini) al notevole aggiornatissimo Manuale del jazz di Barry Ulanov e nella saggistica francese il propedeutico I maestri del jazz di Lucien Malson e il più teorico Uomini e problemi del jazz di André Hodeir. Non di meno gli italiani si prodigano a redigere, nel 1953, quella che risulta la prima Enciclopedia del jazz (a cura di Gian Carlo Testoni, Arrigo Polillo, Giuseppe Barazzetta), prima in assoluto a livello mondiale, seguita, solo due anni più tardi, dalla celeberrima The Encyclopedia of Jazz di Leonard Feather, aggiornata di continuo fino al 1987, però mai tradotta nella nostra lingua: stesso destino riservato al portentoso The Penguin Guide to Jazz Recordings dei britannici Richard Cook e Brian Morton, con ben dieci edizioni dal 1992 al 2010.

ENCICLOPEDIE
Dai Sixties il libro a vocazione enciclopedica diventa un oggetto venduto a dispense nelle edicole, per facilitarne la diffusione in un paese dove, alla crescente alfabetizzazione, favorita dai primi governi di centrosinistra, di rado corrisponde un adeguato numero di librerie per abitanti, con la mancanza di riferimenti soprattutto nei piccoli centri e nei borghi sperduti, dove invece, spesso, ospitata da tabaccherie o negozi di alimentari, funziona la vendita di quotidiani, riviste e collezionabili, che, per generazioni, diventano l’appuntamento obbligato per farsi una cultura alternativa sia alla scuola sia ai media audiovisivi. Anche il jazz – dopo l’abbuffata di boogie e swing postbellici, tornato di moda grazie alle colonne sonore di gialli e commedie nostrane oppure sul piccolo schermo dove non è raro incontrare Frank Sinatra nei Caroselli, Franco Cerri duettare con Mina a Studio 1 o persino Louis Armstrong e Lionel Hampton a Sanremo – può essere narrato in fascicoli acquistabili per poche lire dal proprio giornalaio, con l’aggiunta di un 45 giri (e più tardi di un lp) in allegato. Quest’ultima trovata accontenta un mercato, prospero nella musica leggera, ma che vuole incrementare le vendite anche nei settori di classica e appunto jazz che, in passato, non godono di molte attenzioni da parte dei discografici, eccetto la Fonit-Cetra di proprietà statale: unica a documentare l’evolversi del jazz italiano con memorabili ep, ancor oggi in attesa di una generale ristampa.
Collane come Il jazz (Fratelli Fabbri), I giganti del jazz (Curcio), I maestri del jazz (DeAgostini), ristampate e aggiornate talvolta fino ai primi anni Duemila con nuovi formati (audiocassette e compact disc) vengono curate dai decani della critica jazz italiana (Mazzoletti, Roncaglia, Schiozzi, Candini eccetera), giornalisti e studiosi che spesso esordiscono con propri libri, quando sul jazz è emblematica la spaccatura fra l’editoria popolare dalle grandi tirature e quella più di cultura, schierata a sinistra: ciò spiega ad esempio come, in pieno Sessantotto, da un lato la Mondadori pubblichi il tascabile Jazz del liberale Arrigo Polillo, mentre l’Einaudi di Italo Calvino traduce, nella collana Il Politecnico di vittoriniana memoria, Il popolo del blues dell’afroamericano Leroi Jones, poeta, sociologo, agitatore marxista. Qualche anno dopo, alle soglie del riflusso, entrambi gli editori si ripeteranno specularmente, da un lato offrendo la possibilità a Polillo di ampliare le ricerche fino a presentare il monumentale Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afroamericana, la più completa storia dell’argomento medesimo, dall’altro proponendo il contestatario Free Jazz/Black Power, in cui i francesi Philippe Charles e Jean-Louis Comolli rimettono in gioco l’intera questione afroamericana, con una lettura gauchiste a demolire la narrazione jazzistica così come va perpetuandosi da decenni.

PIANO ACCADEMICO
Contrastato sul piano accademico dagli studi politico-filosofici di Giampiero Cane – primo in Italia a ottenere una cattedra universitaria di Storia del Jazz – da Canto nero a Facciamo che eravamo negri fino a Introduzione al jazz, alla storia e alle opere, il Jazz di Polillo miete successi super partes, con nuove edizioni (riaggiornate da Franco Fayenz), scalfito solo, a partire dal XXI secolo, da altre «storie» in grado di porre ulteriori domande di una musica che, discograficamente parlando, supera già i cento anni di epocali registrazioni. In Italia, difatti, tra il 2000 e il 2020 si traducono libri inglesi e americani di sicuro valore da Il jazz di Gunther Schuller in sei volumi (mastodontica impresa incompiuta solo a causa del decesso dell’autore) a Jazz! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz di John F. Szwed, da Nuova storia del jazz di Alyn Shipton a Storia del jazz di Ted Gioia, fino alla nuova edizione del più venduto al mondo, il tedesco, Il libro del jazz dal ragtime al XXI secolo del compianto Joachim-Ernst Berendt e del continuatore Günther Huesmann; a parte quest’ultimo, che ha il coraggio di presentare l’attualità, gli altri pur notevolissimi saggi, innovativi per metodo, analisi, visione d’assieme, difettano nel ridurre gli ultimi trenta-quarant’anni di vita jazzistica a poche pagine, dove vengono indicati perlopiù i musicisti preferiti, senza considerare il sound nella propria eterogeneità, complessità, diversità; ed è un problema che riguarda anche Storia del jazz. Una prospettiva globale di Stefano Zenni, forse il migliore di tutti per ricerca storiografica, approccio culturale, visione d’assieme, ma troppo mirato, nel finale, a considerare solo gli esempi avanguardistici.

MEMORIA COLLETTIVA
Un testo recentissimo che invece fa dell’esperienza contemporanea e del contributo europeo il fiore all’occhiello è la Storia del jazz di Luigi Onori, Riccardo Brazzale, Maurizio Franco, che indirettamente lancia persino un chiaro segnale su come dovrebbero essere concepite in futuro le storie del jazz: non come il prodotto del critico-vate (e star) o frutto di un unico ingegno onnisciente, bensì quale lavoro collettivo, dove si confrontano le differenti competenze, che in questo caso sono appannaggio dello storico (Onori), del jazzista (Brazzale) e del musicologo (Franco) in un equilibro che, sul piano divulgativo (tale è il volume anche per scelte editoriali) funziona a meraviglia, restituendo del jazz non tanto una lunga serie di eventi concatenati (come accade in altre storie redatte in tempi più o meno recenti) quanto piuttosto l’idea concreta di una musica espansa in perenne dialettica tra oggi, ieri e domani. E sulla Storia, intesa anche «oltre» la storia del jazz, vale forse quanto scritto da Haruki Murakami, abile romanziere e al contempo provetto jazzofilo con Ritratti in jazz (2013) autentico cult: «La nostra memoria è composta da una combinazione di memoria individuale e memoria collettiva. Le due sono strettamente intrecciate. E la storia è la memoria collettiva. Quando questa viene rubata, o riscritta, non siamo piú in grado di sapere chi siamo».