Tra il raid governativo su Douma – secondo il fronte anti-Assad perpetrato con armi chimiche, sebbene non esistano al momento prove – e il bombardamento della base siriana T4 a Homs all’alba di ieri, il governo di Damasco e il gruppo salafita Jaysh al-Islam hanno raggiunto un accordo di evacuazione da Ghouta est. L’ultimo gruppo ancora arroccato nella principale città del sobborgo ha ceduto e messo da parte la richiesta di restare, disarmato, come polizia locale.

I primi autobus, decine, sono entrati ieri a Douma per iniziare l’evacuazione di un numero stimato di 50mila persone, di cui 8mila miliziani. Il resto sono loro familiari. L’accordo è stato sancito dalla liberazione di alcuni prigionieri da parte della milizia salafita (in totale sarebbero 3.500 i prigionieri di Jaysh al-Islam), il cui mancato rilascio era stato secondo il governo a monte dello stallo nella trattativa.

Uno stallo serio: venerdì dopo 10 giorni di tregua erano ripresi bombardamenti governativi e colpi di mortaio jihadisti, con decine di vittime, culminati domenica nell’attacco (chimico secondo le opposizioni, il governo smentisce) di Damasco a Douma. Almeno 60 morti, forse 100: le informazioni in arrivo sono contraddittorie, come le dichiarazioni dei due fronti. Da una parte le analisi compiute dalla Russia, dall’altra le dichiarazioni degli Elmetti bianchi, «protezione civile» che opera solo nelle zone delle opposizioni e sostenuta finanziariamente dagli anti-Assad.

In cambio del rilascio dei prigionieri Jaysh al-Islam ha ottenuto un’uscita in sicurezza e l’ingresso a Douma non dell’esercito siriano ma della polizia militare russa. La milizia, la più numerosa e potente nella Ghouta orientale, è considerata dalla comunità internazionale opposizione legittima, tanto da essere invitata al tavolo dell’Onu a Ginevra: Mohamed Alloush, attuale leader dopo la morte del fondatore, il cugino Zahran, nel dicembre 2015, era stato posto da Riyadh a capo della delegazione di opposizione.

Una scelta non certo fatta a caso: l’Esercito dell’Islam è da anni finanziato dalla petromonarchia saudita, nell’evidente obiettivo di destabilizzare la Siria e di creare un emirato sunnita nel paese.

Jaysh al-Islam ha resistito più degli altri: dopo la ripresa dell’offensiva governativa sul sobborgo damasceno sotto assedio interno ed esterno dal 2013, da metà marzo in poi altri gruppi presenti aveva deciso di lasciare. Ahrar al-Sham, milizia salafita, e Faylaq ar-Rahman, unità islamista dell’Esercito libero siriano, sono uscite nel corso delle ultime settimane, 46mila persone tra miliziani e familiari condotti nella provincia nord-ovest di Idlib, bubbone jihadista da anni, sotto l’ala (non più così riconosciuta) dell’ex al-Nusra.

Proprio a causa delle faide interne al fronte islamista di opposizione (venute alla luce a marzo quando i tre gruppi proposero di consegnare i qaedisti di al-Nusra in cambio della tregua), Jaysh al-Islam non ha come destinazione Idlib.

I primi 3mila uomini evacuati prima che il negoziato collassasse, venerdì scorso, hanno raggiunto Jarabulus, comunità nell’estremo nord siriano al confine con la Turchia. E lì andranno anche i miliziani oggi in uscita. Una località non casuale: è con al-Bab (altra meta di Jaysh al-Islam) al centro del triangolo curdo Afrin-Kobane-Manbij. Il cuore, cioè, dell’attuale resistenza delle unità di difesa curde Ypg/Ypj all’invasione turca.

Le due destinazioni fanno immaginare l’intervento della Turchia (oltre che della Russia, negoziatrice ufficiale) nel dialogo aperto tra Jaysh al-Islam e Damasco. Dopotutto i turchi sostengono da anni le milizie islamiste di opposizione. Ora intendono usarle come già hanno usato l’Esercito libero siriano, contro la curda Rojava, con buona pace di Assad che non disdegnerebbe le manovre turche in cambio di Ghouta est.

Ma le contraddizioni, nella guerra siriana, sono dietro l’angolo: ieri il ministro degli Esteri russo Lavrov ha gettato altra carne al fuoco, chiedendo ad Ankara (parte del triumvirato del tavolo di Astana, con Mosca e Teheran) di consegnare Afrin a Damasco.