«Finché non verrà risolta la questione razziale negli Usa, potranno scoppiare rivolte come quella di Ferguson in qualsiasi luogo! Finché gli Stati Uniti continueranno a preoccuparsi della gestione dell’ordine pubblico più che della vita dei giovani afroamericani, i disordini non cesseranno. Finché non otterremo giustizia non ci sarà pace».

Con questo monito chiude la nostra intervista Jasiri X, rapper indipendente di Pittsburgh, attivista, in prima linea con il movimento Occupy e membro della Nation of Islam, organizzazione nera religiosa e politica. Il rapper – due album in proprio alle spalle, più una quantità di collaborazioni e partecipazioni – rivolge queste parole all’establishment Usa e all’opinione pubblica internazionale. «Sono orgoglioso dei miei fratelli che hanno combattuto per le strade di Ferguson per difendere diritti e dignità – continua -. Non si sono fatti intimidire dalla polizia né dalle dotazioni militari in loro possesso. Hanno reagito e lottato perché non è possibile accettare tali ingiustizie».

L’assassinio del 18enne Michael Brown (lo scorso 9 agosto a Ferguson, Missouri), con le braccia alzate in segno di resa, crivellato da undici colpi sparati da un agente di polizia, l’ennesimo omicidio di un giovane nero disarmato, ha provocato la reazione della comunità e lo scoppio di gravi disordini. «Do we need to start a riot?» rappa proprio Jasiri X in un suo pezzo criticando le strategie di contenimento giovanile adottate dall’amministrazione statunitense. Ed è stata necessaria proprio una rivolta razziale per portare all’attenzione nazionale e internazionale i gravi problemi che lacerano oggi il tessuto politico/sociale negli Stati Uniti: una crescente marginalizzazione economica, la sistematica criminalizzazione dei giovani neri e la mancanza di una reale rappresentanza politica.

Ancora un volta, però, i media sembrano più interessati a una cronaca suggestiva degli scontri tra polizia e manifestanti che ad analizzare le ragioni di quella violenza generalizzata di fronte al dispiegarsi di un vero e proprio esercito, pronto a reprimere i disordini «portando la guerra» per le strade di una piccola cittadina del Missouri. Esercito, idranti, cani, incendi e scontri, immagini che confliggono duramente con l’idea di integrazione rappresentata dall’America post razziale di Obama, immagini che stridono ancor più in relazione alla celebrazione del 50esimo anniversario di importanti vittorie ottenute dal Movimento per i diritti civili. Vittorie quali l’approvazione nel 1964 del Civil Rights Act (una legge Usa che dichiarò illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche, ndr) e nel 1965 del Voting Rights Act (estensione del voto ai neri, ndr), momenti fondamentali nella storia democratica Usa ma che sembrano in netto contrasto con le rivendicazioni dei giovani dimostranti, pacifici e non. È indubbio che la popolazione afroamericana nata dopo quegli eventi possa fruire di diritti che, senza il sacrificio degli uomini e delle donne che coraggiosamente si opposero alla violenza del razzismo, sarebbero loro ancora negati. Ma l’ingiustizia è sempre lì, dietro il solito angolo e il mondo che i giovani neri hanno ereditato continua a basarsi su forti disparità razziali.

Ecco alcune statistiche: entro il 23/mo anno di età, circa la metà dei giovani afroamericani ha subito almeno un arresto, il 30% prima dei 18 anni. Il tasso di disoccupazione per i giovani tra i 16 e i 24 anni è attorno al 25%. Le ragazze nere hanno un tasso di abbandono scolastico del 12%, una percentuale maggiore rispetto ad altre etnie. Le donne nere sono incarcerate con un tasso tre volte superiore alla loro controparte bianca. I neri rappresentano, inoltre, il 14,6 % dei consumatori di droga, costituiscono il 31% degli arrestati e ricevono di norma pene maggiori. Secondo un rapporto del Malcolm X Grassroot Movement, che si basa su dati della polizia e inchieste giornalistiche, nel 2012 l’omicidio di un/a giovane black da parte di agenti della polizia avveniva ogni 36 ore. Nel 2014 si è arrivati a uno ogni 28 ore.

«La copertura mediatica è stata scandalosa proprio come la risposta fortemente reazionaria dell’amministrazione locale e statale – racconta Jasiri X -. Entrambe hanno contribuito a veicolare un’immagine di comodo fatta di giovani devastatori che mettevano a fuoco e fiamme la città senza minimamente indagare le ragioni che hanno generato tale reazione». Un tweet che circolava in rete riassume perfettamente la situazione; con un chiaro riferimento al film Fa’ la cosa giusta di Spike Lee afferma: «a distanza di venticinque anni ancora ci si chiede perché Mookie abbia spaccato quella vetrina e non perché la polizia abbia ucciso Raheem».

Alcune vittime della violenza poliziesca – Oscar Grant, Trayvon Martin e Nicholas Davis, per nominarne solo alcuni – sono morti. Altri, come Antonio Martinez, sono stati selvaggiamente picchiati. In ogni singolo caso la polizia utilizza la resistenza all’arresto come causa della loro morte. Ogni volta le telecamere di sorveglianza hanno raccontato versioni differenti quando non opposte, come nel caso del pacifico rivenditore di sigarette abusivo Eric Garner, ucciso a Staten Island, o della professoressa Ore, aggredita nel campus dell’università dove insegna per essersi rifiutata di mostrare la propria carta d’identità. Il significato degli eventi di Ferguson, dunque, va ben oltre il singolo caso ed evidenzia un modus operandi esplicitamente razzista che sottende le politiche di contenimento dei giovani. Negli ultimi due anni si è assistito a un’intensificazione della violenza che ha trovato giustificazione nella «no compliance», ovverosia la mancanza di immediata sottomissione alle richieste degli agenti. Questa giustificazione, però, non fa altro che perpetuare il razzismo e contribuire alla militarizzazione crescente delle forze di polizia locali.

Oltre a ciò, la mancanza di soluzioni da parte dei leader afroamericani allontana i giovani dall’impegno politico e sociale, aumentando in questo modo un gap generazionale particolarmente evidente nei giorni delle rivolte. I richiami di Jesse Jackson e le parole dal pulpito del reverendo Sharpton, con accuse rivolte solo ai giovani ribelli senza alcuna condanna per il comportamento della polizia, ha innalzato un muro di incomunicabilità. A tal proposito ecco cosa Jasiri X rappa in 212°, pezzo dedicato a Ferguson: «Motore, ciak, azione. Ora arriva il reverendo Al. Rivolte e saccheggi e si chiedono perché. Tutti questi figli neri morti, voi stronzi sembrate tutti muti. Protesta pacifica, amici, l’ho vista, non c’è dubbio, poi i poliziotti hanno aperto il fuoco ed è scoppiato il casino. Dov’è Obama? Dov’è Holder? (Eric Holder, ministro della giustizia, ndr) I Federali? Chi comanda?»

«La vecchia leadership ha fatto il suo corso – prosegue il rapper – le loro parole non hanno alcun significato per i giovani. Non hanno idea della repressione alla quale sono sottoposti, per questo non sono in grado di affrontare i problemi». Sicuramente uno degli elementi di interesse del post Ferguson sarà l’emergere di una nuova generazione di attivisti, che operano a livello locale utilizzando politiche e strategie innovative e che già hanno saputo creare nel corso degli ultimi dieci anni relazioni tali da agire in sinergia per attivarsi su temi e proteste di carattere nazionale.

Questi giovani sono disposti a operare all’interno del sistema, come dimostra la legge firmata in California dal governatore Brown che aumenta le possibilità di ottenere giustizia per le vittime di abusi della polizia, ma anche di scontrarsi contro autorità e istituzioni per difendere la propria dignità e diritti. «Anche la scena hip hop ha dimostrato di aver raggiunto una certa maturità – conclude Jasiri X -. Molti artisti, come Talib Kweli, David Banner e Tef Po erano a Ferguson a sostenere la comunità e a fornire una narrativa alternativa a quella dei principali media. Diversi rapper hanno pubblicato pezzi su Ferguson, come per esempio Don’t Shoot che include nomi come The Game, Rick Ross, 2 Chainz, Diddy, Fabolous, Wale, DJ Khaled, Swizz Beatz, Curren$y, Yo Gotti, Problem e Tgt». E sempre in 212°: «Non vedo l’ora che questo sistema si fermi, finché non succede devo battermi». A distanza di cinquant’anni dalle principali vittorie del Movimento per i diritti civili, l’orologio della storia sembra essere tornato molto indietro.