Leggenda. Per Lev Jašin non si tratta di una esagerazione. È stato l’unico portiere al mondo, nel 1963, a conquistare il Pallone d’Oro; vinse il campionato d’Europa di calcio con l’URSS nel 1960, fu cinque volte campione dell’Unione Sovietica e conquistò tre coppe dell’URSS con la Dinamo Mosca (l’unica squadra di cui vestì la maglia per 22 stagioni consecutive), la sua porta restò inviolata 270 volte su 812 incontri che giocò complessivamente. I più grandi giornalisti sportivi lo hanno giudicato il più forte portiere della storia del calcio.

Per i mondiali del 2018 in Russia la Fifa ha deciso di dedicare il manifesto ufficiale della competizione proprio a Lev Jašin; sono state inoltre stampate in occasione dell’evento banconote a tiratura limitata da 100 rubli che ritraggono il portiere moscovita e anche una serie di francobolli.

Il vice premier russo Vitakij Mutko si è detto convito a proposito della scelta di Jašin che “il manifesto dei mondiali deve rappresentare il simbolo e il volto del calcio del paese ospitante. E quando abbiamo dovuto scegliere, non abbiamo avuto dubbi”.

Jašin nacque Mosca nel 1929 in una famiglia operaia e crebbe nel popolare quartiere di Tušino. Ancora adesso anziane signore del quartiere lo ricordano con affetto: “Lui, stella del calcio, quando tornava dalle trasferte all’estero aveva sempre un regalino per noi bambini del condominio”. Pelé che ebbe l’occasione d’incontrarlo più volte disse che il portiere russo non era solo un grande giocatore “ma un uomo di straordinaria generosità”.

Nelle sue memorie intitolate “La felicità è una difficile vittoria” il futuro Pallone d’Oro ricorda “quel piccolo lembo di terra dove iniziammo a giocare sotto casa da bambini che era per noi, il nostro stadio Maracanà”. Per tre stagioni all’anno improbabile campo da calcio e in inverno ancora più improbabile rettangolo per sfide a hockey su ghiaccio (Jašin praticò con successo anche l’hockey tanto è vero che nello stesso anno in cui passò definitivamente al calcio divenne con la società sportiva Dinamo, campione dell’URSS in quella disciplina, sempre nel ruolo di portiere). Da bimbo gli piaceva giocare da attaccante ma quando la squadra avversaria doveva battere un rigore era lui chiamato a pararlo: “ero il più alto di tutti e per questo incutevo un certo timore” raccontò poi a Vladimir Galedin che gli dedicò una bella biografia. Forse fu allora che imparò a incantare i rigoristi: nella sua carriera parò oltre cento tiri dal penalty. Sandro Mazzola, indimenticabile mezz’ala dell’Inter, a cui Jašin parò un tirò dal dischetto nell’Europeo del 1964, ha ricordato recentemente: «Mi sentii ipnotizzato, Jašin era un gigante nero: lo guardai cercando di capire dove si sarebbe tuffato e solo tempo dopo mi resi conto che doveva avermi ipnotizzato. Quando presi la rincorsa vidi che si buttava a destra: potevo tirare dall’altra parte, non ci riuscii. Quel giorno il mio tiro andò dove voleva Jašin».

I giocatori italiani che ebbero la soddisfazione di batterlo furono solo due: Gianni Rivera regista del Milan e Aristide Guarnieri, difensore dell’Inter.

All’età di 14 anni Lev fu avviato a lavorare in fabbrica ma continuò dopo il lavoro a studiare in una scuola serale. La leggenda, questa sì veramente tale, racconta che iniziò a giocare seriamente a calcio perché in grado di bloccare i bulloni che i compagni di reparto gli lanciavano.

Nel 1945 entra nella squadra del quartiere, già in veste di portiere e due anni dopo passa alla Dinamo. Ma è solo è 24 anni, nel 1953, che diventa titolare quando Aleksej Komič detto “Tigre” appende i guantoni al chiodo. Inizia allora una carriera folgorante: l’anno successivo esordisce in nazionale in un URSS-Svezia conclusosi con il risultato di 7 a 0 per i sovietici.

Jašin per tutta la vita condusse una vita da vero sportivo – niente vodka e ore piccole – salvo la debolezza per il tabacco: fu sempre un gran fumatore. La moglie Valentina ha recentemente raccontato al Moskovskij Komsomol’ che “una volta l’organizzazione del partito comunista della “Dinamo” – la quale probabilmente aveva ben poco da fare – mi chiamò alla cellula chiedendomi che costringessi a smettere di fumare. Mi dissero: non è un buon esempio che uno sportivo fumi e che lo veda in giro fumare tanta gente” mi dissero. Ma a sua difesa intervenne l’autorevole Vasily Sokolov che disse: “In guerra nelle lunghe giornate di lavoro il padre gli metteva in bocca una sigaretta per non farlo addormentare davanti alla macchina. Ora che c’è la pace, lasciatelo stare…”

I giornalisti lo soprannominarono “il ragno nero” per la sua per la sua capacità di tessere tele insuperabili per gli giocatori avversari, ma era soprattutto, come ha raccontato in una recente intervista a Il Foglio la sua riserva alla Dinamo Jonas Bauzha “un anatema contro la sconfitta, un pezzo di legno in mezzo al mare al quale aggrapparsi se nella tempesta la barca scuffiava e ci si ritrovava in balìa delle onde”.

Come quasi tutti gli atleti era un po’ superstizioso e il suo talismano era un berretto nero che calcò a per molti anni in tutte le partite sulla testa.

Jašin per tutta la vita restò un patriota del suo paese e del socialismo. In una intervista a France Football del 1963 affermò che non sarebbe andato al Real Madrid, allora come oggi il più forte team calcistico del mondo, neppure per un ingaggio di 100 mila dollari all’anno. “Rifiuterei senza dubbio alcuno. Perché non immagino la mia vita in nessun altro luogo che non sia la Russia. Adoro viaggiare ma sono sempre enormemente felice quando torno alla dalla mia famiglia, dai miei amici, nel mio Paese. Non amo quei calciatori che per soldi vanno a giocare in club stranieri”.

Altra pasta d’uomo se si pensa all’oggi. Jašin guadagnava 200 rubli al mese, un stipendio discreto per l’URSS di allora. I privilegi di una star del calcio sovietico erano ridotti all’osso del resto. Dopo aver vissuto tanti anni nel quartiere operaio di Tušino (in una casa in condivisione nei primi anni) gli venne assegnato un appartamento in centro a Mosca di due stanze, cucina e bagno dove viveva con la moglie e la figlia Irina. Acquistò una “Volga” di color blu, la berlina sovietica più prestigiosa, e nei giorni di riposo la usava per andare alla dacia con la famiglia. Gli piaceva andare al cinema e non nascose un debole per la nostra Gina Lollobrigida. “Gioco al calcio e mi pagano perfino per questo. Cosa dovrei voler altro?” dichiarò una volta al quotidiano Sovietskij Sport. Condusse una vita semplice: “Adoro la vita fuori dalla città con il suo silenzio e la sua tranquillità. Amo la pesca. Non c’è niente di meglio per un atleta, di questo sport”.

Quando riceve il Pallone d’Oro nel 163, forse grazie anche a quel “disgelo” che dell’era kruščeviana rasserenò per qualche i tempo i rapporti est-ovest, fece persino un appello alla distensione: “Nella vita, mi sforzo di far sì che la pace e l’armonia, l’amicizia e il cameratismo prevalgano nei miei rapporti. Mi batto per la pace. Credo che questa sia una naturale aspirazione per un giovane che ama la vita”.

Jašin, dopo la conquista del Pallone d’Oro, giocò a calcio ancora per 8 anni, anche se dal 1967 non fu più titolare della nazionale sovietica.

Il 27 maggio del 1971 per celebrare il suo ritiro la Dinamo Mosca sfidò una selezione del resto del Mondo. Nello stadio Lenin di Mosca si presentarono in 103.000 per dare l’addio al vecchio leone del calcio sovietico. Per l’Italia era presente Giacinto Facchetti capitano della nazionale. Jašin giocò solo il primo tempo e non subì reti; così come era stato tante volte in mille scontri epici gli avversari non riuscirono o non vollero come ultimo gesto di rispetto, violare la porta difesa dal “ragno nero”.

Jašin si spense presto, prima di aver compiuto i 61 anni di età. Gli ultimi anni furono per lui difficili per i molti problemi di salute legati al tabagismo. Nel 1985 gli venne amputata una gamba ma ciò non gli impedì di continuare a esercitare il suo unico vizio: appena uscito dalla rianimazione infatti chiese ai medici di avere una sigaretta. Morì nel 1990, nella sua Mosca, a causa di un tumore allo stomaco.