E’ una polemica bizzarra quella che nell’estate 1993 scuote la rubrica di posta del Corriere della Sera. Nemmeno tre mesi sono passati dal volo di monetine al Raphaël, due dall’esplosione di un’autobomba sotto gli Uffizi. Sta per saltare in aria a Milano un padiglione della Galleria di arte moderna, a Roma si scioglie la Democrazia Cristiana. La signora Rosalba interviene sul quotidiano in merito alle preferenze dei genitori per i figli. Con il pretesto di criticare l’opinione di un altro lettore, coinvolge una scrittrice accusandola di avere troppo insistito in un suo libro sulla predilezione della madre per la sorella minore. Il libro, spiega, le ha causato un grande disagio. A quella madre che ha frequentato da ragazzina vuole rendere giustizia. Chissà se Marina Jarre, la scrittrice incriminata, avrà mai letto queste righe. Se avrà magari pensato come un suo lontano personaggio alla «lacerazione del tempo» e alla «fedeltà della memoria».
Certo è che il libro di cui si parla, un’«autobiografia» lo ha definito l’autrice con icastica semplicità, difficilmente concederà al lettore di attraversare le sue pagine senza uscirne scompigliato. Il lettore dovrà anzi predisporsi ad accogliere oscuri turbamenti, lasciare spazio a emozioni anche violente per seguire Marina Jarre in quel suo sabbioso tragitto verso il centro della propria vita e di sé. Uscito da Einaudi nel 1982, riedito nel ’95 da Bollati Boringhieri e adesso riproposto da Bompiani nei «Grandi Tascabili» (introduzione di Marta Barone, pp. 190, € 12,00), il poco appariscente I padri lontani, sesto libro della scrittrice, fu a lungo riveduto e poi pubblicato in controtempo. È oggi un piccolo, sfolgorante capolavoro impastato di acqua e di pietra. La sua liquida quanto minerale forza espressiva riposa nello sguardo implacabile con cui la vita di chi narra vi resta denudata, aperta per una determinazione insieme oltraggiosa e innocente, raggiunta nella sua palpitante intimità da una luce cruda. «Scrivendo restituisco i miei vari strati. I dolori, come le gioie. Le frastornate vicende accadute. È l’accumulo delle cose che mi interessa. La polvere che si toglie dalla vita. Scrivere è una forma di chiarezza. Di onestà con sé stessi», dichiara l’autrice dialogando con Antonio Gnoli in un’intervista del 2014. Sarebbe morta a Torino, dove abitava, appena due anni dopo.
Era nata nel 1925 a Riga, in Lettonia. I suoi libri li firmerà più tardi con il cognome del marito, però si chiamava Gersoni, «con la g dura», come indica spesso puntigliosa. Bello e sciupafemmine, il padre era un commerciante ebreo di origine sefardita ma di lingua tedesca; era stato educato da un pastore luterano e aveva combattuto nell’esercito russo. La madre invece era italiana, valdese di Torre Pellice: insegnante, traduttrice, in Lettonia era arrivata ottenendo un posto di lettrice all’università. Il loro matrimonio si sgretola in fretta. Le due bambine, Annalisa è minore di un anno, vivranno per qualche tempo insieme al padre dopo che la madre se ne sarà andata di casa. Con un sotterfugio la seguiranno nel 1935 a Torre Pellice dove rimarranno dai nonni mentre lei continuerà a viaggiare. Vedranno il padre poche volte prima che sia ucciso dai nazisti con migliaia di altri ebrei lettoni durante il massacro di Rumbula nell’autunno 1941. A diciotto anni Marina Jarre si trasferisce a Torino: qui si laurea in lettere, si sposa e ha quattro figli, insegna francese nelle scuole medie. Cresciuta parlando tedesco, ha imparato non senza difficoltà il francese con l’italiano dopo il suo arrivo in Val Pellice. Esordisce a quasi quarant’anni con un volume di storie per bambini, Il tramviere impazzito; lo dedica alla figlia avuta da suo padre con un’altra donna dopo la loro fuga e morta insieme a lui.
«Diversamente assenti dalla mia vita, padre e madre, fantasmi simbolici, l’hanno entrambi improntata d’un marchio indiretto e non voluto, non impresso neppure da loro, mia madre non potendo accettarmi, mio padre con la sua tragica morte» riflette Jarre in una sequenza dei Padri lontani. Per quanto il titolo alluda agli antenati valdesi, i protagonisti veri del libro sono questi due «fantasmi», così opposti ma così uguali nella forma vuota della loro assenza come nel duello incandescente che combattono dentro il corpo stremato della figlia. I padri lontani è scandito in tre parti, quasi una forma-sonata, secondo i tre tempi e i tre luoghi della vita dell’autrice. Il testo si fonda tuttavia su una continua duplicità incapace di placarsi nella coesione cui ossessivamente aspira. Due lingue, due religioni, due paesi. Soprattutto due esistenze, quella vissuta in Italia e quella sfuggita in Lettonia, capaci di scorrere insieme dentro la stessa giornata: una è l’ombra dell’altra, le sfama la mancanza e le unisce il senso di colpa.
Doppio è il fuoco prospettico di cui Marina Jarre si serve per disporre nel libro la sua narrazione, doppio lo sguardo che le consente di raccontare se stessa mentre occupa il punto di vista della bambina e oltre l’orizzonte del passato quello adulto di scrittrice. «Avrei voluto riuscire a non dividere l’io narrante dall’io trascorso, non predeterminare l’uno nell’altro, accennare ai segni contenuti in quel cerchio che si stava chiudendo. Solo nel presente – un grande presente senza mura – avrei potuto dare unità all’io, ma l’io si rifiutava». Non è un libro sulla memoria I padri lontani, piuttosto sul destino e sul tempo che i destini lascia baluginare come fosforescenti miraggi e poi travolge. Per non perdersi, l’autrice stringe un filo che non ripete la sequenza esteriore degli eventi, asseconda la revisione interiore dell’esperienza. Mette in fila parole levigate e solide, essenziali. Non ciottoli, ma schegge d’ambra simili a quelle che le due sorelle, l’una il riflesso dell’altra, cercano al tramonto sulla spiaggia nei giorni più felici dell’infanzia. Dell’ambra hanno la calda profondità e anche la nuda trasparenza. Il misterioso tesoro che il suo bagliore custodisce intatto per noi.