Il bambino di bronzo ha un elmetto troppo grande per la sua piccola testa fiera. I piedi non faranno molta strada negli scarponi militari. La carabina su cui posa le mani è impugnata con presa incerta ma decisa. E l’efebico corpo è un’esile gruccia per la giubba stretta ai fianchi da un cinturone virile.
Questa rappresentazione di bambino soldato potrebbe sembrare una provocazione à la Banksy. Un atroce ossimoro che fa leva sulla dismisura degli opposti di bambino e guerra, innocenza e crudeltà, speranza e morte. Ma qui non si tratta di denuncia, né di pungolo contro il potere. Con la scultura del Piccolo insorto, dedicato ai bambini che hanno combattuto per la resistenza polacca contro l’occupazione nazista, si erge un monumento complesso, più intimo che eroico. La sua disarmante paradossale semplicità ci dice, oggi, che la violenza cieca e totale della guerra divora tutto e tutti e rimanda a una delle pagine più buie della Seconda guerra mondiale. Alla concessione segreta della Polonia a Stalin nella conferenza di Teheran del 1943. Alla disperata e tradita resistenza polacca nell’estate del 1944. Al temporeggiare dell’Armata Rossa sulla sponda orientale della Vistola, mentre, passiva e consapevole, assiste all’ultima vittoria nazista e all’orribile distruzione di Varsavia.
Tenero monumento
Questo straziante, tenero e lirico monumento, che si trova appena usciti dalle mura della Città Vecchia in direzione nord, è lì dal 1983. È stato realizzato nel 1946, in piccola scala, dallo scultore Jerzy Jarnuszkiewicz (Kalisz, 1919 – Varsavia, 2005), per partecipare a un concorso bandito dal Ministero della Cultura. Mai realizzata, l’opera diviene famosa per le varie riproduzioni anonime eseguite. Poi, appropriata indebitamente, fu oggetto di contenziosi giudiziari che infine ripristinarono il legittimo diritto d’autore.
Anche di questa storia ci illustra l’ampia retrospettiva Jerzy Jarnuszkiewicz. Notes from the Expanse, curata da Waldemar Baraniewski, in mostra alla Zacheta, Galleria Nazionale d’Arte di Varsavia, fino al 17 aprile. Una mostra, questa, che documenta di un artista schivo e concentrato, prolifico e versatile, capace di raffinati e minuziosi formati numismatici e di ampie retoriche monumentali e liturgiche. Di intimi registri lirici e grandi visioni ambientali. Di socialistiche visioni realiste e di complesse costruzioni geometriche.
Cresciuto nell’officina lattoniera paterna, tra lamine utensili e piegatrici varie, Jarnuszkiewicz affina le sue innate abilità manuali prima alla Scuola di Arti Decorative e Applicate di Cracovia e poi a Varsavia, dove insegnerà Composizione di solidi e piani all’Accademia di Belle Arti. La stalinizzazione del dopoguerra non permetterà ampi margini di innovazione formale. La figurazione è assoggettata alla propaganda del potere, delle masse, dell’operaio, del minatore, della famiglia e dell’eroe: il potere del partito vuole il realismo socialista.
Jarnuszkiewicz vi aderisce fedelmente realizzando, tra gli altri, i gruppi di sculture monumentali per il Cimiero Militare Sovietico di Varsavia su progetto dell’architetto Bohdan Lachert. Ma già agli inizi degli anni cinquanta, accortosi dell’inaridirsi delle soluzioni formali che questo modello imponeva, e della sterilità della produzione in serie della retorica ufficiale, comincia a rivolgersi a ragioni più emozionali ed espressive. Nel 1956 realizza il gesso Coppia, raffigurante due amanti che, quasi come silhouette, creano un’immagine sensuale, sacrale e iconica dall’impronta matissiana.
È il tempo del «disgelo». Finita l’era stalinista, comincia una fase di relativa apertura culturale e politica. All’esposizione Sculture in un giardino, tenutasi al Palazzo Zamoyski nel 1957, alla quale partecipa la giovane generazione di artisti, Jarnuszkiewicz presenta due opere dal forte richiamo informale, due soggetti drammatici rappresentati come sostanze combuste. Uno di questi è intitolato a Marcinelle, luogo della tragica esplosione della miniera belga nell’agosto del 1956. Come giustamente osserva Baraniewski, appena qualche anno prima, durante il clima stalinista, questo lavoro sarebbe stato ridotto a una critica al capitalismo e allo sfruttamento sociale e non considerato per quello che vuole essere: un’istanza empatica ed espressiva del rapporto tra creazione artistica e destino umano.
Ed è di questi anni anche l’incontro con l’architetto norvegese, teorico della «forma aperta», Oskar Hansen. Lo scultore polacco è nel suo team per la realizzazione, nel 1957, del progetto per il Memoriale alle vittime del fascismo nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Un progetto ambientale innovativo che, privo di sculture, concepisce lo spazio del campo stesso come monumento aperto e sensoriale e che, pur premiato dalla giuria internazionale guidata da Henry Moore, non fu mai realizzato. Hansen e il suo gruppo pensano a una strada nera, lunga un chilometro e ampia settanta metri, obliqua rispetto al perimetro del campo, che lasci intatto solo ciò che incontra, mentre intorno, baracche, torri e crematori vengano abbandonati alla natura e alle calamità naturali. Si può pensare, per analogia coll’impatto emotivo del visitatore e col rapporto al luogo preesistente, al più tardo Grande Cretto di Burri a Gibellina. Ad ogni modo, il Memoriale, in senso più «tradizionale», è invece riprogettato ex novo e realizzato solo più tardi, nel 1967, da un gruppo italo-polacco, che vede cooperare, insieme a Jarnuszkiewicz, Cascella e gli architetti Simoncini, Palka e Vitale.
Nel 1960, il primo attacco cardiaco riavvicina l’artista alla sua città natale. Qui, nell’officina paterna, comincia a maneggiare piccole lamine d’acciaio. La confidenza presa con questi nuovi strumenti di lavoro lo porta nel giro di un anno e mezzo a realizzare quaranta piccole sculture di varia natura formale, fino a trovare nella pura astrazione geometrica il principio costruttivo delle opere future.
Invitato nel 1964 a Forma vera, il simposio di scultura di Ravne, nell’ex Jugoslavia, realizza la sua prima Composizione spaziale, una scultura di grandi dimensioni collocata in un contesto naturale. Al rientro in Polonia, l’anno successivo, vince la prima edizione della Biennale di Forme Spaziali di Elblang. Ma il vero, grande riconoscimento arriva con l’invito a partecipare con l’opera Ritmi II all’evento internazionale Sculture da venti Nazioni, al Guggenheim Museum di New York nel 1967. Individuata come l’opera più rilevante del Costruttivismo europeo, il museo vuole acquistarla, ma Jarnuszkiewicz rifiuta.
Fa pensare a Tatlin
Il rilievo dato alla materia delle composizioni fa pensare a Tatlin. Nel rapporto di pieni e vuoti, i sofisticati ingranaggi sono sospesi nello spazio, come varianti di perfette costruzioni meccaniche, grevi e al contempo leggerissime. Jarnuszkiewicz sonda continuamente la plasticità dei metalli e fa di queste sculture dei veri e propri studi per nuove acquisizioni formali.
Nel 1968 la pura ricerca astratta si esaurisce. Ma il ritorno alla figura non può scindersi dagli esiti raggiunti. Le serie delle Museruole ne è una dimostrazione. I diversi disegni (da cui solo una scultura viene realizzata) rappresentano volti umani mostruosamente deformati da rigide strutture metalliche, come micidiali metafore tanatopolitiche della condizione umana negli ingranaggi costrittivi del potere. E nel contempo quelle astrazioni valgono allo scultore anche come «esercizi spirituali». Jarnuszkiewicz si avvicina alla Chiesa. Si rivolge alla rappresentazione religiosa. Comincia l’epoca di Wojtyła