Nata ad Atene 36 anni fa, dopo aver frequentato la scuola delle arti dell’Università di Leeds in Inghilterra e aver conseguito un dottorato in filosofia sulla teoria e la pratica del video, Janis Rafailidou (abbreviato in Rafa), ha iniziato a lavorare con le immagini in movimento, la scultura e l’installazione, partecipando a numerose collettive (dal 2008) e allestendo la sua prima personale nel 2014. I suoi film sono stati presentati in diversi festival internazionali di cinema e videoarte. Il suo primo lungometraggio a soggetto, Kala azar – co-produzione greco-olandese, in competizione al festival di Rotterdam di quest’anno – presentato in anteprima italiana a «Lo schermo dell’arte», insieme al cortometraggio Lacerate che fa parte del progetto Mascarilla 19. In Kala azar l’artista-cineasta segue il vagabondare, attraverso il desolato paesaggio post-industriale della Grecia, di una giovane coppia votata a dare degna sepoltura agli animali. Lacerate invece – con uno stile visivamente potente e raffinato (grazie anche alla superlativa fotografia di Thodoros Mihopoulos con cui Rafa lavora da anni) – mette in scena in un interno fatiscente, una tragedia quotidiana in chiave di metafora. Nel suo immaginario il realistico e il metafisico, il sociologico e l’antropologico, il politico e il poetico, si fondono in modo inevitabile dando vita a una singolare narrazione avara (o del tutto priva) di dialoghi, dove quasi sempre al centro vi è l’incontro tra l’elemento umano e quello animale, accomunati dallo stesso fatale destino.

«Kala azar» è un film che nasce dalla situazione sociale che sta attraversando il tuo paese, ma hai scelto di raccontarla da un punto di vista particolare, attraverso una narrazione molto visiva, fatta di pochi dialoghi e a tratti quasi vicina alla performance…
Non ho voluto rappresentare un particolare paese, cultura o luogo di origine ma, al contrario, parlare di alcuni temi: la mortalità, la convivenza e l’empatia attraverso un approccio universale e senza tempo. È stata una decisione consapevole evitare di enfatizzare la specificità del luogo, ma piuttosto mirare a produrre una realtà immaginaria. Certamente, Kala azar presenta un mondo al di fuori di una narrazione. È un film che si occupa della posizione reale, del tempo, della vita randagia e dell’imprevisto. Pertanto le riprese in Grecia sono state fondamentali per attuare questo approccio. L’anarchia del paesaggio greco è stata la principale fonte d’ispirazione del film e il motivo per realizzare un’opera incentrata su ciò che spesso viene aggirato o trascurato.

Come vedi la Grecia dall’osservatorio di un paese nordeuropeo come l’Olanda dove ti sei trasferita?
Sfortunatamente il mio paese è un luogo dove si continua a rifiutare il concetto di convivenza. E questa condizione ci definisce come nazione e cultura in termini percettivi nei confronti della natura, degli animali, dello spazio e del loro utilizzo. I Paesi Bassi, viceversa, sono un luogo strutturato in cui la vita animale e la natura sono in un certo equilibrio in un approccio più organizzato nei confronti dello spazio aperto, urbano e rurale. Inevitabilmente, finisco sempre per tornare a casa e produrre un film. La Grecia è un luogo di infinite ispirazioni, giustapposizioni e aggressioni sulla terraferma, ma è anche un luogo che in qualche modo rende più facile il cinema.

Nel frattempo hai collaborato al film collettivo Mascarilla 19 dove affronti il tema della violenza domestica sulle donne utilizzando soprattutto gli animali, già protagonisti di «Kala azar».
Il mio scopo era realizzare un film che parlasse di genere e violenza senza ritrarre ancora una volta il personaggio femminile come vittima che aspetta di essere salvata. In Lacerate la donna diventa il carnefice nel tentativo di una possibile autodifesa. I cani sono i personaggi principali e agiscono come forza trainante della narrazione. Li uso non solo come simboli dell’animalità e dell’istinto, ma anche come elemento di protezione e liberazione nei confronti di lei, come un modo alternativo per discutere la violenza umana nella sua forma più grande, a prescindere se essa sia rivolta contro le donne, gli animali o la natura.

A differenza di molti altri artisti, spesso interessati molto al contenuto e al concetto, il tuo stile è decisamente formale. In «Lacerate» ricorri al tableau vivant e alla natura morta fiamminga.
Ho scelto di ricollegarmi a precise rappresentazioni della violenza maschile desunte dalla storia dell’arte e della mitologia, poiché si tratta di temi che appartengono alla storia (occidentale) incentrata sull’uomo. L’utilizzo dell’animale, sia vivo (i cani) che morto (la selvaggina), aveva lo scopo di creare un’opera cinematografica in grado di resistere alla facile identificazione emotiva avendo l’umano come suo epicentro.

Hai pensato a trasformare «Lacerate» in un’installazione video?
In generale ogni mio progetto – un’opera di videoarte, un mediometraggio o un lungometraggio –, è strutturato attorno a un particolare linguaggio cinematografico al servizio di un concetto sia narrativo che relativo all’utilizzo del mezzo. Trasformare un film in una videoinstallazione in occasione di una mostra, ad esempio, è sicuramente qualcosa che mi incuriosisce. Sono interessata a verificare come un frammento di film possa essere adattato allo spazio espositivo e trovare nuovi modi per presentare immagini in movimento in forma di narrazione non lineare. Anche Kala Azar – film realizzato per un pubblico cinematografico – è un’opera che resiste alla linearità narrativa: direi che ha una struttura più circolare. Pertanto posso immaginare di utilizzare cinque diverse sequenze di Kala Azar nell’ambito di un’installazione multischermo. Mi piacerebbe sicuramente approfondire questa modalità, anche in relazione alla mia attività scultorea.

Come si collegano le tue sculture alle immagini in movimento?
La pratica scultorea è emersa come componente della mia ricerca video e come un modo alternativo per discutere gli stessi temi attraverso un mezzo non basato sul tempo. Si tratta di manufatti e oggetti trovati che hanno una loro storia particolare e una connessione con il mondo umano-animale. Sono un intreccio tra realtà e finzione. Il maggior numero di sculture è stato realizzato nel 2019 per la mia personale Eaten by Non-Humans allestita al Museum Centraal di Utrecht. Per la prima volta ho tentato di presentare sia video che sculture, opere vecchie e nuove, lasciando che creassero una narrazione più ampia nell’ambiente espositivo. Vedo il mio lavoro video e cinematografico come un’altra forma di scultura. Per me significa comporre un mondo di elementi naturali insieme a scenografie e interventi. Ad esempio, le opere Requiem to a Shipwrech (2014) e Requiem to a Fatal Incident (2015) sono video che presentano un atteggiamento scultoreo nei confronti della messa in scena. D’altra parte, considero le mie sculture come artefatti di una narrazione che non è completamente raccontata o che deve essere scoperta dagli spettatori. Consentire connessioni, interrelazioni e lacune tra le diverse opere e formati è l’obiettivo principale per creare una mitologia della realtà autentica e stratificata.