Dobbiamo al trombettista, compositore ed entertainer sommo Louis Armstrong da New Orleans, tra molti altri e forse incommensurabili meriti, nella storia delle musiche che non sono né «folk» né «classiche» uno di quelli meno ricordati quando si fa l’appello delle piccole e grandi scoperte delle note afroamericane del Novecento: aver dimostrato a tutti che una voce è una voce. Cioè ogni voce è una voce individuale. Che una brutta voce, in altre parole, brutta secondo parametri assunti pari pari dal canone occidentale via via consolidatosi di ciò che è pregevole e giusto in musica, possa essere una «bella» voce. Prima il concetto non c’era, a un certo punto, esattamente cent’anni fa, discograficamente parlando, quel fenomeno è apparso, scoperchiando un altro mondo.
Dobbiamo a Janis Joplin, morta giovanissima esattamente mezzo secolo fa, il 4 ottobre 1970, entrando direttamente nel mito, l’aver fatto più o meno lo stesso percorso indicato da Armstrong, ma provenendo dal mondo del rock palpitante e burrascoso ancora in formazione, nella California libertaria della fine degli anni Sessanta. La prima voce femminile del rock che non si attenesse a canoni di chiarezza espositiva, dolcezza, sensualità indiretta e ben mediata come all’epoca il fertile matrimonio tra folk music e rock nel Greenwich Village della East Coast, aveva invece indicato, incarnato in figure come Joan Baez e Joni Mitchell. Pressoché coetanee della fragile, tempestosa, dolcissima Janis Joplin. Tra i maschi sì, si poteva anche usare la «brutta voce» sdoganata da Armstrong, l’anti Sinatra stilistico, in fondo (ma un’analisi musicologica anche superficiale mostrerebbe, a sorpresa, molte attinenze, ad esempio nell’articolazione ritmica): si pensi a Bob Dylan o a Phil Ochs. Certo non «belle voci». Si pensi a Van Morrison, pozzo d’espressività ma di sicuro voce molto spericolatamente «soul» e «black». Che a un certo punto incrocerà anche, indirettamente, le piste di Janis Joplin.

GIOVANI E AGGUERRITE
Baez e Mitchell: senza Janis Joplin, catena interrotta (quasi) sul nascere per una sfilza di donne giovani e agguerrite ben intenzionate a cantare sopra le righe, e spesso anche ad esserlo, nella vita privata. Alla faccia di un machismo dei fatti e nei fatti che ha caratterizzato più di quanto si sia indagato la storia del rock. Una catena di forza roca che arriva fino ad oggi, come vedremo.
Ma andiamo per gradi, partiamo dalla tenera e burrascosa Janis Joplin. Nata il 19 gennaio 1943 sotto il segno del Capricorno – una bella testa dura dunque, a dar retta agli astrologi – in una delle terre del blues sanguigno e terroso, il Texas anche covo quasi «naturale» di incattiviti risentimenti razzisti. Janis Joplin adolescente è bruttina, sgraziata e brufolosa, sa che non potrà mai essere come quelle biondine leggere che ambiscono, al più, a fare le ragazze pon pon e trovarsi un buon partito. Nasconde la sua insicurezza in un fare ardito e sboccato, si porta a letto chi vuole, veste come un ragazzo, camicia e pantaloni, senza reggiseno (quasi incredibile, negli anni Cinquanta!), beve come una spugna. Si becca le ramanzine senza fiatare, il giorno dopo ricomincia. Cosa quasi insopportabile, frequenta gente «di colore».

FOLGORAZIONI
E poi scatta l’amore per la musica di quella comunità discriminata: è un suo compagno di scuola ostracizzato come lei, Grant Lyons, a prestarle i primi dischi di Leadbelly e di Bessie Smith. Una folgorazione in blues. Tutto il risentimento covato contro quel mondo soffocante e oleografico come una cartolina a colori, che nasconde la propria turpitudine razzista sotto il tappeto delle buone maniere è lì, in quegli inusitati dischi duri e crudi, dove cantano voci che seguono un «non canone» altro: sbalzano salti inquietanti fra i registri, invece di restare ancorate a un registro mediano e confortevole, sfiorano il borbottio rugoso del «growl», a volte prendono falsetti angelici, trasformano le sillabe in micidiali pallottole ritmiche. Tutto quello che molta gente crede sia un fatto quasi «biologico», il canto nero afroamericano: in realtà un purissimo dato culturale fatto di stratificazioni espressive e stilistiche funzionali (cioè efficaci) elaborato nella storia, e nel percorso da schiavi a cittadini di serie b e c dei neri.
Janis ama molto e da subito anche Odetta, la folk e blues singer accettata anche nel giro «radical» bianco: un giorno, quando è ancora una ragazzina, sbalordisce i suoi amici dropout come lei sfoderando una perfetta imitazione di quella voce imperiosa e urgente. Janis sa cantare, dunque: e comincia una gavetta faticosa ma liberatoria nei locali di Austin prima, della lontana California poi. A San Francisco riesce a trasferirsi definitivamente nel 1963: ha vent’anni, e si ritrova nella patria dei beatnik jazzofili che tengono a battesimo la nuova colorata ondata rock, i freak coi capelli lunghi e le chitarre amplificate. Non è un bengodi, nel ’63: Janis campa di lavoretti, vive di sussidi, a volte si fa anche beccare mentre rubacchia nei supermercati per mangiare. Beve molto, si fa di speed. Scopre la sua natura bisex. Ma qualcuno comincia a notarla: troppo speciale quello stile vocale turgido che s’era sentito in gola solo a cantanti maschi che facevano il verso ai neri, davvero spregiudicato quel modo sensuale e senza mediazioni di muoversi sul palco, che il mondo dello spettacolo concedeva in dote solo a Elvis «The Pelvis». Non una roba da spregiudicate e insicure ragazzine bianche.

FERMENTO A FRISCO
Qualcosa di buono comincia a maturare, nel gran fermento di San Francisco, mente Janis Joplin pencola tra Texas e California. Il suo amico hippie Chet Helm comincia a organizzare grandi jam session, apre i battenti il Matrix, la prima discoteca hippie del circondario, è attivo Bill Graham, il padre del leggendario Fillmore West, uno scafato ben addentro alle cose che a dieci anni era sopravvissuto all’olocausto e aveva girato la Francia a piedi. Chet l’hippie prende a organizzare feste, dà spazio a un gruppo che si chiama Big Brother and The Holding Company: sono dei dilettanti, però hanno una bella grinta. Cercano una cantante che abbia personalità e carisma. Lì trova casa musicale l’inquieta e strafatta Janis Joplin. Ha un gruppo, finalmente, è il 1966 e lei ha ventitré anni. I Big Brother con Janis sono già, chiaramente, una delle next big thing, in quel giro dove si sentono i primi accordi dei Grateful Dead , dei Jefferson Airplane, It’s a Beautiful Day, Quicksilver Messenger Service. Janis peraltro diventa amica della mercuriale Grace Slick, la voce solista dei Jefferson: sono come due lati di una medaglia potente, uno è il lato «nero» del rock, l’altra il lato «bianco».
C’è anche una prima sortita discografica, a nome del gruppo, strumentalmente tutt’altro che eccelso, Janis non canta neppure in tutti brani, ci vuole un innesco vero per scatenare l’incendio.

MONTEREY POP
Il 16 giugno 1967 Janis Joplin con il suo gruppo sale sul palco del Monterey International Pop Festival: in buona sostanza una scintillante e fumatissima vetrina di quanto sta succedendo nella «Summer of Love» californiana: ci sono gli Who e c’è Jimi Hendrix – che lì avrà un folgorante incontro con Janis, e ne seguirà una bruciante storia di sesso e affinità elettive – c’è il maestro del sitar indiano Ravi Shankar. Il set di Janis Joplin col gruppo spiazza ed entusiasma tutti: cinque brani uno dopo l’altro che ipnotizzano la platea. Però, incredibilmente, nessuno ha filmato l’esibizione, e succede allora che il giorno dopo venga chiesto a Janis di ricalcare quel palco sotto l’occhio delle telecamere: così il mondo conoscerà la sferza aggricciata di blues di Ball & Chain, il vecchio brano di Big Mama Thornton che Janis trasfigura in un puro atto di teatro musicale «nero»: inizia con un sussurro, alla fine fa deflagrare la voce in un crescendo di pathos catalizzato dal moto convulso del corpo, impegnato in una sorta di danza sciamanica trance e molto, molto erotica. È nata una stella, naturalmente. È nata la Janis Joplin che sublima le amarezze di adolescente sgraziata in un consolatorio e liberatorio atto orgasmico d’amore per il pubblico: perché, come ebbe a dire:_«Sul palco faccio l’amore con 25 mila persone. Poi torno a casa sola».
Alla Columbia Records hanno aguzzato le orecchie, Albert Grossman, il manager più potente e influente della Bay Area (per le mani lui ha Bob Dylan, per intendersi), prepara il contratto discografico «vero» per Big Brother & The Holding Company, ormai evidentemente il «gruppo che accompagna Janis Joplin», e non il contrario. Il disco si intitolerà Cheap Thrills (sballi a buon mercato: ma in originale avrebbe dovuto chiamarsi «Sesso, droga e sballi a buon mercato», titolo poi censurato), la superba copertina colorata psichedelica la firma il principe dei disegnatori underground Robert Crumb, pure uno assai poco tenero col mondo del rock. In studio, ma con curiosi e ingenui effetti aggiunti per far credere che sia dal vivo, mentre l’unica canzone ripresa da un palco è solo Ball & Chain, dal Winterland di San Francisco. C’è la versione da pelle d’oca di Summertime, che da accorato acquerello gershwiniano diventa un miagolante, durissimo blues della carne, c’è soprattutto Piece of My Heart («vieni ragazzo, prenditi un altro pezzo del mio cuore…»): sembra l’apoteosi dell’autobiografismo «maledetto» della Joplin, in realtà quel brano era stato pubblicato nel 1967 come singolo a quarantacinque giri da Erma Franklin, la sorella assai meno nota della grande Aretha. L’autore Bert Berns, in origine la vedeva adatta all’ugola di Van Morrison, gliela propose, il sanguigno rocker irlandese la rifiutò. C’è anche, in Cheap Thrills e, inevitabilmente, in Ball & Chain. Bisogna sfruttare le scie dei brani che hanno colpito la gente.

IN TOUR
Janis per la prima volta va in tour sulla East Coast, e lì nasce l’altra effimera ma poeticissima storia d’amore con Leonard Cohen, ricordata dal grande canadese in Chelsea Hotel, dove Janis donna che «stringe i pugni pensando a quelli come noi ossessionati dalle figure della bellezza». Il successo, per Janis , a quel punto davvero in balia delle droghe e delle bottiglie di bourbon è un mostro a due teste: da una parte si sente finalmente considerata, e il suo egocentrismo rintuzzato può aprirsi spiragli, nell’esibizionismo sfrenato sul palco e nello stile di vita, dall’altra deve sottostare alle nuove regole del gioco.
Così, ormai prima donna, spinta dal manager Grossman liquida in fretta e furia i ragazzi dei Big Brother, la gente viene a saperlo da un secco comunicato stampa, mentre la comunità freak di San Francisco le lascia scritte sui muri attorno a casa: Janis, ti preghiamo, non lasciare i Big Brother. Janis è un diva. Tossica, meravigliosamente efficace e brava, e sola.
Il 18 settembre 1968 Janis Joplin ha il suo nuovo gruppo, la Kozmic Blues Band, nome che evidentemente vuole richiamare sia la stagione psichedelica, sia l’amore mai rinnegato per le note afroamericane. Forse anche rinforzato, perché in formazione c’è una sezione fiati, evidente allineamento con le spinte che arrivano dal contemporaneo rhythm and blues. All’inizio i risultati non sono confortanti, poi però arriva un tour in Europa (Parigi, Francoforte, Londra) dove per la prima volta un altro pubblico scopre l’esplosiva sensualità graffiante di quella ragazza bianca con l’aria arruffata ed etilica.
I filmati ci restituiscono una Jabis Joplin selvaggia come sempre, ma forse più rilassata, a contatto con un nuovo pubblico. Arriva il nuovo disco, si intitola I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama!; esce nel settembre del 1969, e qualche brano memorabile c’è, ad esempio Try (Just a Little Bit Harder), Work Me, Lord e Little Blue Girl. Il suono, però, vira pericolosamente verso un soul rock di maniera, mancano le unghiate psichedeliche dei Big Brother, ancorché imprecise. Janis non «lega» con quei professionisti.

WOODSTOCK
Il 16 agosto 1969 Janis è una delle ospiti più attese a Woodstock. Arriva in elicottero, accanto ha Joan Baez, incinta. Altro rovescio esatto della sua voce. La sua esibizione slitta di ben dieci ore, lei è in preda all’ansia: quando sale sul palcoscenico, alle due del mattino, è rauca, sfocata, e strafatta: alcol e eroina l’hanno avvolta in una nebbia dura. Ma non è finita: il colpo d’ala arriva con un ennesimo nuovo gruppo, i canadesi della Full Tilt Boogie Band conosciuti in tour: Janis è contenta del suono asciutto e diretto, ha idee e canzoni nuove. Scopre che riesce a tenersi alla larga dalla bottiglia di bourbon che le sega la voce, ma riprende a farsi d’eroina, per cercare di stare tranquilla. In studio, dopo il tour, nasce il disco che non riuscirà a vedere, Pearl, un capolavoro: Move Over, l’incantevole Me and Bobby McGee di Kris Kristoferson, che sbancherà le classifiche dei singoli americani, la possente Mercedes Benz cantata «a cappella», sbocciata da una poesia di Michael McClure.
La notte del 4 ottobre 1970, nella stanza ossessivamente triste di un motel di Hollywood, Janis Joplin viene ritrovata cadavere. Overdose di eroina, anche se la sua amica Peggy Caserta, nel suo libro di memorie, sostiene che Janis è morta sì da tossica, ma per aver battuto la testa dopo aver inciampato: in mano, dice, aveva un pacchetto di sigarette e il resto di un distributore automatico. Assieme a Jim Morrison e Jimi Hendrix, Janis entra nel sinistro «Club 27», e nella mitologia. Ogni tanto, un «live» recuperato dagli archivi. Sempre un’esperienza.
Quanto resta della potenza luciferina e angelica assieme della voce e del modo di porgerla di Janis Joplin, oggi, nel panorama musicale? Molto, e troppo poco assieme. A partire dall’agghiacciante karma che stritola una come lei, bruttina come lei, pronta a trasformarsi in pantera nera da palco, potente, fiera e fragilissima: l’inglese Amy Winehouse. Un’altra voce «nera» dileguatasi nel nulla, nel 2011. E cresciuta a classic rock, soul, blues e Janis Joplin è anche l’americana, Alecia Beth Moore, che il mondo dello stardom conosce come Pink, e l’inglese Joss Stone, una decina di dischi all’attivo, e anche la partecipazione a una super band con Dave Stewart ex Eurythmics e Mick Jagger.
Tracce corpose di Janis Jolplin qui e là anche nei dischi e nei concerti di Charlyn Marie Marshall, che il mondo conosce come Cat Power: che può essere cantautrice intimista, o uragano jopliniano, a seconda dei casi. Chi sembra davvero una reincarnazione di Janis è la teenager inglese Ann Hadwin: la voce sfrangiata, le movenze crude. Per ora quasi un plagio, vedremo se il tempo le darà ragione. Tutto o quasi ha preso da Janis anche Elin Larsson, fascinosa vocalist degli svedesi Blues Pills, un gruppo che sembra portato qui da una macchina del tempo che li abbia prelevati dal 1969, con il giusto armamentario di chitarre, basso e batteria, pochi fronzoli, molto spessore, ancorché «retromaniaco». E in Italia? Per non far torto a nessuno, nomineremo solo due sorelle che molto hanno saputo cogliere dalla straziata fierezza della roca voce di Janis Joplin: Mia Martini e Loredana Bertè.