L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha ripubblicato l’edizione italiana di Themis, il libro più discusso di Jane Ellen Harrison (1850-1928), a cura di Giuliana Scalera McClintock, la cui traduzione è stata rivista e aggiornata rispetto alla prima edizione del 1996 (pp. XLVII-694, euro 45,00). Il sottotitolo, Uno studio sulle origini sociali della religione greca, mira dritto al cuore del problema. A partire dall’analisi dell’Inno dei Cureti, un testo greco risalente agli inizi del III secolo a.C., scoperto ai primi del Novecento nella cittadina di Palaikastro, a Creta, l’autrice dipanava, attraverso una scrittura poetica, a tratti visionaria e vertiginosa, una complessa genealogia di miti, rituali dionisiaci e temi, apparentemente sconnessi tra loro (mana, tabù, dramma, ditirambo, sacrificio, culto eroico, cerimonie iniziatiche, e molti altri ancora), che la condussero a formulare una teoria generale della religione come costruzione sociale. Il presupposto di partenza è che quel testo, per quanto tardo, racchiudesse «fossilizzate antiche modalità di pensiero» che immettevano nello strato più antico della religione greca e che potevano essere comprese solo attraverso la comparazione etnografica con società altrettanto primitive (in quello stesso arco di tempo veniva data alle stampe l’edizione in più volumi di The golden Bough di Frazer). Themis, a cui è dedicato l’ultimo capitolo, incarnava perfettamente l’idea di questo substrato originario, soggiacente alle divinità olimpiche, che l’autrice si era proposta di ricostruire: «Themis è la forza che riunisce e vincola gli uomini, è l’istinto aggregante (herd instinct), la coscienza collettiva, la sanzione sociale. (…) Più tardi si cristallizza nelle convenzioni sancite, nei regolari costumi tribali, finché prende forma nella polis come Legge e Giustizia. Themis veniva prima delle forme particolari degli dèi; non è religione, ma la materia di cui la religione è fatta. È la rappresentazione forte dell’istinto gregario, della coscienza collettiva, che sta alla base della religione» (p. 588).
Il libro, pubblicato nel 1912 e divenuto ben presto il manifesto dei ritualisti di Cambridge – il gruppo di antichisti che nei primi decenni del secolo scorso gettò le basi per un approccio antropologico allo studio della religione greca –, fu accolto con freddezza negli ambienti accademici, sconcertati dal comparativismo selvaggio praticato dall’autrice e dall’ampio impiego di categorie sociologiche. L’approccio proposto dalla Harrison non piacque ai suoi colleghi antichisti che vedevano con turbamento i selvaggi fare irruzione tra gli dèi olimpici, improvvisamente degradati al rango di «rappresentazione tarda e consapevole», a «opera di analisi, di riflessione, di intelligenza», in una «vertigine verso la diversità» – come l’ha definita Giuliana Scalera McClintock nel bel saggio introduttivo al volume –, che per i classicisti era ancor meno accettabile del dionisiaco di Nietzsche. Ma anche gli eredi di Durkheim ebbero da ridire perché vedevano sostanzialmente fraintesa la teoria sociale della religione postulata dal loro maestro. Nella seconda edizione, pubblicata nel 1927, la stessa autrice avrebbe riconosciuto molti dei limiti e delle forzature, soprattutto nella lettura delle fonti, che erano state rimproverate al suo testo; ma sapeva anche che quelle fragilità, quelle acrobazie interpretative, quelle suggestioni quasi sentimentali costituivano la vera forza del libro: se avesse provato a correggerle, di Themis sarebbe rimasto poco o nulla, e molti altri miti (storiografici e letterari) non avrebbero visto la luce: «Oscurati negli studi filologici, Draghi, uccelli maghi antichi prodigi – ricorda la curatrice del volume – ebbero miglior vita in letteratura». I veri epigoni della Harrison furono T.S. Eliot, Robert Graves, David H. Lawrence, Virginia Woolf, Silvia Plath. Di questo libro resta oggi soprattutto il monumentale campionario di documenti letterari e iconografici, una serie di congetture geniali e al tempo stesso eversive per la civiltà vittoriana di allora.
Jane Harrison riteneva che la forma più antica della religione greca, e indirettamente di ogni altra religione primitiva, non fosse stata antropomorfa, ma teriomorfica e fitomorfica (animali e piante all’epoca la facevano da padroni). Nella fase totemica, in cui predominava l’emozione, l’uomo non sarebbe stato ancora in grado di comprendere la propria individualità rispetto al resto degli altri viventi, ma si sarebbe autopercepito come parte indifferenziata di un mana più grande e omnicomprensivo: «Non si tratta dell’errore o della confusione di selvaggi ignoranti ma di una fase o di uno studio del pensiero collettivo attraverso cui la mente umana è costretta a passare. Suo fondamento è l’unità del gruppo, l’aggregazione, la similarità, la simpatia, il sentimento della vita comune; e questo sentimento di unità, di comunione, di partecipazione, si estende al mondo non umano, secondo modalità che l’individualistica ragione moderna, arroccata sulle distinzioni, trova quasi impensabili» (p. 166).
Poi a poco a poco gli uomini avrebbero imparato a cogliere le differenze tra sé e le altre creature viventi, sviluppando un’autocoscienza individuale, che li avrebbe portati a superare la fase totemica. Anche se continua per molto tempo a travestirsi da emú – spiega la Harrison – l’uomo non crede più, come prima, di essere un emú, ma si limita a interpretarlo. La partecipazione cede così il passo all’imitazione. Ma poiché le consuetudini sono dure a morire e sopravvivono spesso indipendentemente dalla consapevolezza che si ha di loro, anche quando la fede nella primitiva consustanzialità del gruppo si è ormai incrinata, i riti totemici continuarono, almeno formalmente, a essere praticati come nei tempi più antichi. Intanto, però, il gruppo dei maghi, e più tardi dei singoli «uomini-medicina» o dei «re-medicina» (termini con i quali si designavano agli inizi del Novecento gli stregoni, i guaritori o sciamani delle società di interesse etnografico), avrebbe cominciato a reclamare il controllo sulle risorse alimentari, sulla fecondità e sui fenomeni atmosferici dai quali dipendono le risorse alimentari. Lo stadio totemico avrebbe ceduto il passo alla magia, intesa come manipolazione del mana.
Per la Harrison l’essenza della magia consiste, infatti, nel puro gesto, nell’azione che scaturisce da un desiderio o da un’emozione. «È un periodo di bonaccia, non puoi fare niente, non pensare a niente se non al vento che non verrà. Questo pensiero si impossessa di te, ti ossessiona, finché la tensione diviene insopportabile e il desiderio si libera; se il vento non fischia, tu fischierai per il vento; il primo fischio è puro desiderio incarnato, ma poiché viene dopo una lunga attesa forse il vento realmente si leva. La volta seguente i sentieri sono già tracciati, una consuetudine è stata messa insieme, si inaugura un rituale privato o forse pubblico» (p. 121). Quando il desiderio che ha determinato l’azione mimetica suscita, o così almeno pare al soggetto, un reale o effettivo cambiamento in seno allo status quo (l’improvviso alzarsi del vento in seguito a lungo periodo di bonaccia), il soggetto crederà in buona fede di aver trovato la formula per riuscire a manipolare la natura. Non solo ripeterà quell’azione ogni qual volta si ritroverà nelle medesime circostanze, ma il ricordo della prima volta, di quel primo fischio, funzionerà da garanzia per le volte successive. In questo modo, il gesto diviene storia.
I miti trarrebbero origine da qui, dalla necessità di tradurre in forma narrativa la procedura messa in atto dal rito, fornendogli una giustificazione, un’autorità che permette al rito di attraversare le generazioni, di trasformarsi in consuetudine. Mito e rito, dunque, nascono insieme, all’unisono, dalle medesime istanze: «la religione consta di due elementi: il costume sociale, la coscienza collettiva, e la rappresentazione emozionalmente carica di tale coscienza; vale a dire, di rito e mito/teologia: il rito come azione collettiva, e il mito come rappresentazione dell’azione e dell’emozione collettiva. Rito e mito sono indissolubilmente legati e, punto di fondamentale importanza, incombenti, vincolanti e interdipendenti» (p. 589).
Abbracciato il totemismo, la Harrison non poteva non prendere le distanze anche dalla teoria del sacrificio-dono, formulata da Taylor, secondo la quale gli uomini sacrificherebbero agli dèi per ottenere in cambio un qualche beneficio (do ut des) o per non esserne danneggiati (do ut abeas). Tale paradigma presupponeva infatti delle divinità già perfettamente antropomorfe, che ragionavano e si comportavano come delle persone. Harrison, dunque, rifacendosi all’intuizione di Robertson Smith, per il quale l’essenza del sacrificio non sarebbe stato il dono, ma il pasto in comune con il dio, proponeva di vedere nell’atto sacrificale il «medium», il «ponte», il «conduttore elettrico» attraverso il quale il mana dell’animale sacro passa a coloro che lo mangiano. I Bouphonia ateniesi, «cerimonia primitiva e anacronistica», costituivano ai suoi occhi il fossile sacrale che dimostrava la validità della sua teoria del sacrificio-banchetto comunitario.
Alla prova del tempo, molte delle costruzioni che animano la complessa architettura del libro risultano oggi ampiamente superate o quantomeno indimostrabili. Così come talune premesse metodologiche, ad esempio l’idea che gli autori antichi, in particolare i poeti, nel dare forma alle leggende del proprio popolo, non avessero piena consapevolezza dell’autentico significato di quei racconti, ma che la loro poesia, sopravanzando la loro stessa coscienza, fosse riuscita a serbarne una qualche traccia (i versi omerici sarebbero «pieni di reminiscenze, insorgenze dell’antica fede», la teologia di Esiodo «del tutto confusa e intrecciata con i relitti di tempi più antichi, che riemergono improvvisi da profondità subconsce», il coro delle Trachinie di Sofocle conterrebbe segni della primitiva natura di Eracle quale demone dell’anno solare, ecc…), e che il classicista dovesse scovare e seguire tali tracce per ricostruire, con l’ausilio degli strumenti concettuali messigli a disposizione dal proprio sapere scientifico, i quadri mentali originali e soggiacenti a tali racconti. Tutto ciò presuppone un Besserwissen, un «sapere di più», dei moderni rispetto agli antichi che, non essendo più in grado di comprendere se stessi, avrebbero dovuto aspettare le nostre interpretazioni perché fosse finalmente svelata l’essenza più profonda, originaria della loro cultura.
Ma nonostante la prospettiva primitivista, oggi difficilmente condivisibile, Themis resta una pietra miliare nella storia degli studi sulla religione greca, che ha avuto il merito, insieme a The golden Bough di Frazer, di liberare gli studi classici dalla loro autoreferenzialità, aprendoli a una riflessione non solo interdisciplinare, ma soprattutto transculturale, antropologica nel senso più moderno del termine. Attraverso un comparativismo, spesso indiscriminato, e l’introduzione di categorie «esotiche» per i classicisti suoi contemporanei (come totem, mana, tabù, ecc.), la Harrison aveva gettato un’ombra inquietante sul primato della civiltà greca. I popoli primitivi sembravano essere riusciti là dove avevano fallito i Giganti: scalzare gli dèi dall’Olimpo. Le «crepe» aperte da Themis furono profonde e per certi versi scandalose, ma noi oggi, forti del senno del poi (è il privilegio dei posteri), ai detrattori di quella studiosa visionaria potremmo rispondere, citando Leonard Cohen, che da quelle «crepe» è passata anche molta luce.