La prima volta che si sono innamorati è stato 47 anni fa, quando lei era la sposina irrequieta e lui lo sposino pacato di A piedi nudi nel parco. Oggi eccoli di nuovo insieme, ancora innamorati seppure come allora per esigenze di set, sempre bellissimi, carismatici più che mai. Jane Fonda e Robert Redford sono stati ieri i protagonisti assoluti della Mostra su un Lido sommerso dal diluvio. Eleganti, ironici, col gusto della battuta scatenata lei, più riservato lui col suo ciuffo sempre biondo, i jeans e la maglietta di un ottantenne sexy – scatta l’applauso quando, durante l’incontro con la stampa si è tolto la giacca. Our Souls at Night, il film che li ha riuniti (produce Netflix, in streaming senza sala dal 29 settembre) accompagna la consegna del doppio Leone d’oro alla carriera – ma a Venezia c’era anche Il cavaliere elettrico di Pollack – a due grandi protagonisti dell’immaginario capaci di essere «dentro» e «fuori» Hollywood per impegno politico, scelte artistiche, invenzione di cinema.

Our Souls At Night
Our Souls At Night

Diretto dal giovane Ritesh Batra (Lunch Box), e tratto dal romanzo di successo di Kent Haruf (Feltrinelli), il film è una storia d’amore tra due persone anziane, quell’età in cui innamorarsi, sullo schermo almeno ma forse anche nella vita sembra ancora un po’ strano se non persino fuoriluogo. Lei è intrepida come deve essere Jane Fonda, e come era la ragazza nel film di Saks – Addie e Louis, questi i nomi dei personaggi di Our Souls at Night potrebbero esserne il sequel oggi – al punto da chiedere al suo vicino di casa, vedovo anche lui, che conosce da decenni di dormire qualche sera insieme a lei. Non per sesso – «non ci penso più» chiosa con un poco di malizia – ma per parlare, perché la notte è lunga e i pensieri escono dall’armadio della vita più in fretta quando tutto dorme insieme alle paure e ai rimpianti. Lui che sta solo soletto tra previsioni meteo in tv, pasti tristemente frettolosi, parole crociate e mattinate al bar al tavolo degli altri vecchietti (da cui si distacca parecchio anche perché come anziano è assai charming) di una piccola provincia americana con le bandiere nel giardino delle case e molte malignità pettegole tentenna ma poi accetta. È l’inizio di un rapporto pieno di complicità, amici e poi amanti, nonni meravigliosi per il nipotino di lei abbandonato dal padre – che poi è il figlio della donna – e una scelta obbligata per lei di madre dietro a un figlio assurdamente viziato – quei maschi inetti per i quali la colpa di tutta la loro esistenza è solo e sempre della madre. Il film è quello che è ma loro sono irresistibili.

«In realtà sono sempre stata innamorata di Robert, dalla prima volta che ci siamo incontrati» esordisce all’incontro con la stampa Jane Fonda. «Ricordo la prima volta che ci siamo parlati, eravamo in uno studio, le donne si giravano tutte a guardarlo e anche io facevo fatica a trattenermi, avevo sempre voglia di toccarlo. Lo sapevo che sarebbe diventato una grande star, l’attore e il regista che ammiro tantissimo». Lui sorride forse con divertito imbarazzo. «Ho accettato questo film perché mi piacciono le storie d’amore e per lavorare ancora insieme a Jane prima di morire». E aggiunge: «Con lei è stato sempre tutto facile, dal nostro primo film insieme (La caccia di Penn). Non c’è mai stato bisogno di discutere, tutto funzionava alla perfezione».

«Questo film dice di non perdere mai la speranza, che si può sempre diventare la persona che si voleva ecco perché mi è piaciuto farlo, a parte Robert naturalmente che baciava benissimo a vent’anni e bacia ancora bene a 80!» scherza ancora Jane Fonda. La sua Addie sfida il tempo, come lei, e l’immagine delle donne che una volta invecchiate dovrebbero mettere ogni desiderio da parte. «Sono felice che ci sia una nuova immagine per le donne anche mature. È bellissimo che i due personaggi facciano l’amore anche se non si vede la scena di sesso nel film. Il sesso non cambia con l’età, anzi migliora, conosciamo meglio il nostro corpo e abbiamo meno cose da perdere». E anche Redford si lascia andare un po’: «Quando sei giovane non pensi che puoi invecchiare, io ero molto atletico e oggi invece ci sono movimenti che non posso più fare. È una sorta di restrizione anche creativa molto difficile da gestire».

Si chiacchiera un po’ di tutto nella mezz’ora e più che la splendida coppia passa con i giornalisti sul Lido meno che di Trump e dell’America oggi. Da Redford o da Fonda protagonista di tante battaglie il femminismo, il Vietnam, la campagna per l’istruzione (certo che in mezzo c’e stata anche l’ossessione per l’aerobica, e devo dire che fa un certo effetto sentirla dire che la cosa più importante è la famiglia) è quasi ovvio aspettarselo. Lui invece è elusivo: «Non voglio parlare di politica, non mi piace mischiarla all’arte. Posso solo dire che dobbiamo garantire un futuro alle nuove generazioni, e per questo dobbiamo preoccuparsi del clima, della salvaguardia del pianeta».

Preferisce concentrarsi sul Sundance, il suo festival nello Utah, che è comunque una dichiarazione politica: «Quando hai successo puoi intraprendere due strade: mantenerlo o dare l’opportunità agli altri, io ho scelto questa seconda via facendo il produttore e col festival che ha permesso a tanti giovani registi di mostrare i loro film e al pubblico di scoprirli».

Per questo invece di dirigerlo lui stesso ha preferito che alla regia di Our Souls at Night ci fosse Ritesh Batra, anche lui cresciuto al Sundance. «L’indipendenza è un valore fondamentale, dobbiamo essere capaci di costruire uno spazio dove può crescere e affermare la propria voce».