Soltanto Jane Birkin, una delle attrici più sorprendenti e sensibili, ma determinata come poche altre dell’ultimo mezzo secolo a non diventare assolutamente una star, poteva svelarsi senza reticenze in questi Munkey Diaries – di cui ora Clichy pubblica, nella traduzione di Alessandra Aricò, il primo volume dal ’57 all’82 (pp. 374, euro 19,00) – che riescono a essere insieme buffi e toccanti. Soprattutto per la singolare capacità di far venire in primo piano il vissuto personale, la soggettività più disarmante, la forza che si nasconde sotto la leggerezza, mentre la fittissima filmografia passa in secondo piano, chiamata in causa solo se non può proprio farne a meno, quando l’aneddoto apre la strada all’emozione.

Nel clima trascinante e glamour della Swinging London, Jane nel ’65 non ha ancora compiuti diciannove anni quando si conquista il suo primo, minuscolo ruolo in Non tutti ce l’anno di Richard Lester, dove è una delle fidanzatine di Ray Brooks, il dongiovanni che ha successo con le ragazze perché possiede il knack. Il mix – spregiudicato e scoppiettante di trovate surrealiste e di suggestioni optical – vince la Palma d’oro a Cannes.

A teatro è una delle interpreti di Passion Flower Hotel, la commedia musicale di John Barry, il compositore delle colonne sonore dei film di James Bond, più volte premiato con l’Oscar. C’è ancora qualcuno che crede nel colpo di fulmine? Evidentemente sì, perché John e Jane, lui trentadue e lei diciannove, dopo poche settimane si sposano nell’entusiasmo generale di amici e parenti. Ma l’allegra marcetta nuziale dura poco. Se Jane aveva visto nell’uomo più vecchio di lei la suggestione della figura paterna, John è un marito che esce di casa la mattina e, sovraccarico di lavoro, torna stanchissimo alla sera.

Quando le arriva la notizia di un’audizione per Blow Up di Michelangelo Antonioni, non resiste alla tentazione di presentarsi nello studio vicino a Londra, dove «un signore elegantissimo e soave» (Antonioni?) le spiega che le due ragazze che stanno cercando appariranno per un momento completamente nude. A maggio del 1967, la nascita di Kate, «adorabile con il suo ciuffo scuro e i grandi occhi azzurri», non salva il matrimonio in crisi. In agosto lascia John, andandosene sotto la pioggia con una valigia e una culla portatile, il mascara che le cola sul viso, come un’eroina da romanzo d’appendice divorata dall’angoscia.

Nella Saint-Germain degli anni settanta Jane Birkin forma con Serge Gainsbourg, di cui è la compagna dal ’69 all’80, la coppia più radiosa e provocatoria. L’incontro tra la ventitreenne attrice inglese e il cinquantunenne cantautore francese di origine russa avviene sul set di Slogan di Pierre Grinblat, per il quale qualche settimana prima aveva fatto il provino nei giorni tempestosi del Maggio: «Subito dopo me ne sono andata con Pierre e la sua Porsche è esplosa davanti al drugstore di Saint-Germain. Il Sessantotto era cominciato».

Durante le riprese Jane, che farfuglia le sue battute in un francese approssimativo, si sente addosso lo sguardo sprezzante di Serge. Ma nella cena al Régine si accorge che l’arroganza nasconde una persona straordinariamente timida e pudica. Quando poi lo trascina nella pista da ballo per accorgersi che le pesta maldestramente i piedi, la diffidenza reciproca scompare. Serge la porta al Raspoutine, il locale notturno russo dove l’orchestra suona il Valzer triste di Sibelius e infila biglietti da cento franchi nei violini dei musicisti, dicendole: «Sono delle puttane, come me».

Vanno poi al Calvados, in cui Serge suona la chitarra con il gruppo messicano e si mette al pianoforte con Joe Turner, il famoso jazzista nero. Dopo è la volta di Madame Arthur, il locale di travestiti, dove i performer vestiti da gallina fanno uscire le uova da sotto le ascelle degli spettatori continuando a dire «co co co co». Qui tra baci e abbracci l’accoglienza è trionfale: «Sergio! Sergio!», perché suo padre era stato per vent’anni il pianista del locale. Si dirigono poi in taxi verso l’albergo dove è alloggiata, ma lei non vuole scendere. Vanno allora all’Hilton. Arrivati in camera, Jane corre in bagno, forse pentita di aver agito troppo in fretta, ma quando torna nella stanza il grande seduttore si è addormentato.

Nei dodici anni seguenti al numero 5 di rue de Verneuil – con Kate e poi anche con Charlotte che nasce nel ’71 – l’inglesina dalla bellezza quasi androgina e il geniale cantautore vivono la loro straordinaria storia d’amore. Attingendo alla tradizione di Charles Trénet, Boris Vian e Jacques Prévert, Serge sta diventando un protagonista di primo piano della società dello spettacolo, dalla canzone al cinema e alla tv, sperimentatore musicale e sensibile alle mode, circondato da un’aura maledetta, tra dandysmo e marketing.

La piscina di Jacques Deray – girato a Saint-Tropez con Alain Delon e Romy Schneider – è un grande successo. Sul set l’attrice sta spesso con la troupe: «Ho capito durante quelle riprese che la cosa più importante sono i tecnici, la loro protezione e la loro amicizia». Negli alti e bassi nella vita di ogni coppia i litigi non mancano, anche se non sono obbligatorie le torte in faccia. Come capita al prestigioso ristorante Castel in cui di battuta in battuta il clima si riscalda: «In un attimo la mia mano si è ritrovata sotto una torta alla panna che ho spedito diretta sulla faccia di Serge. Non l’ho mancato, lui si è alzato, non ha fatto gli stupidi gesti per liberare gli occhi come nei cartoni animati, è andato verso l’uscita. Io, sconvolta per quello che avevo fatto, gli sono corsa dietro, l’ho visto girare a destra verso il boulevard Saint-Germain, mentre i pezzi di torta cadevano da una parte e dall’altra. Che cosa potevo inventarmi per farmi perdonare?».

Nel frattempo scoppia lo scandalo di Je t’aime, moi non plus, la canzone che Serge aveva scritto qualche anno prima per Brigitte Bardot e che ora con un filo di voce, ansimi e sospiri, Jane rifà a modo suo. Il disco brucia tutte le vette delle classifiche in Europa, ma viene messa al bando dal Papa, che Serge non esita a definire «Il nostro miglior addetto stampa». La canzone dà il titolo anche al film d’esordio di Serge, Je t’aime, moi non plus, ambientata in una Camargue travestita d’America, con una Jane romantica e disperata. Forse ancora più bella – più intensa e magica – è Melody Nelson, la canzone-racconto che dovrà aspettare il 1983 prima di conoscere come disco d’oro il successo popolare, mentre l’autore, anche grazie alle spericolate esibizioni televisive, è diventato ormai un mito mediatico. Ma Jane nel settembre ’80 lo ha già lasciato, andandosene con le figlie.

L’incontro con il regista Jacques Doillon – è del ’44, quasi un coetaneo – le ha sconvolto la vita, costringendola a ricominciare daccapo. Sarà il suo compagno fino al 1992 e vivranno insieme in rue de la Tour con Kate, Charlotte e Lou, la terza figlia nata dieci anni prima. La fille prodigue, il film per il quale Jacques si ispira alla biografia di Jane, soprattutto al suo rapporto con il padre, inaugura la nuova, grande stagione di una commediante finalmente matura. Segnata dall’inquietudine che ne fa l’interprete ideale di Jacques Rivette (L’amore in pezzi), Jean-Luc Godard (Cura la tua destra), Agnés Varda (Jane B. par Agnés V.), Bertrand Tavernier (Daddy nostalgie), Alain Resnais (Parole, parole, parole). Il cinema non le impedisce di dedicarsi alle canzoni, al teatro e alla tv. Senza mai smettere di partecipare in prima fila alle battaglie contro la pena di morte e a quelle a favore dell’aborto, in cui incontra Vanessa Redgrave, che aveva intravisto durante le riprese di Blow Up.