Nessuno crede in qualcosa come nelle proprie passioni, soprattutto quando si stravolgono in insanabili ossessioni. Lo sa bene Jan Fabre, artista-ossesso febbrilmente posseduto dall’hybris (da intendersi sia come arroganza sia come sfida, coraggio, spregiudicatezza nello sfidare le sedimentate logiche spettacolari) che, mescolato all’estro dell’ambizione, dona al suo personaggio un diuturno sentore sulfureo. Il dire qualcosa su di lui si scontra fatalmente con un contraddire. Le sole parole possibili in grado quindi di darne una definizione compiuta sono quelle che lui stesso ha pronunciato su di sé, di cui peraltro non nutre alcun dubbio riguardo il valore artistico: «la mia biografia è un’opera d’arte».

LO ANNOTA in Giornale notturno, sprezzante zibaldone di rapide illuminazioni («Ogni vera bellezza è scomoda») e altrettanto fulminei turbamenti, redatto con irrequietezza nel corso di notti insonni. Ora questo diario giovanile, composto da pensieri sull’arte e sul teatro, sul senso della vita e sulla famiglia, è diventato un omonimo spettacolo, diretto ovviamente dallo stesso Fabre, presentato in prima assoluta negli spazi di Triennale Teatro dell’Arte come apertura di FOG (ancora oggi e domani è invece al Fabbrichino di Prato e poi in tourneé), festival meneghino che indaga i diversi modi per interpretare la pluralità disciplinare. Giustissimo cominciare con Fabre, artista che ha trovato nel teatro lo spazio privilegiato di sperimentazione e nelle pratiche performative il luogo di confluenza di linguaggi e umori.

QUI PERÒ non si ha che fare con una nuova performance-monstre, quegli esperimenti fluviali di cui Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy (opera-mondo della durata di 24 ore) è l’ultimo in ordine di apparizione: Giornale notturno è un assolo per attore, Lino Musella, chiamato a identificarsi completamente nella «forma del discorso» egoriferito dell’artista belga, a bruciarsi in un atto di «transustanziazione», cioè, in un’identificazione totale con l’autore (incorrendo nel rischio, non sempre scongiurato, della caricatura). Un uomo solo, su un palcoscenico quasi completamente vuoto, a tu per tu con sé stesso (e anche nei momenti in cui coinvolge il pubblico è solo per adoperarlo come se fosse eco della propria voce), impegnato in quella complessa dinamica dell’auto-ritrarsi, gesto paradossale del «guardarsi dal di fuori» e oggettivarsi nell’immagine con cui ci si immagina. Per Fabre, alla fine, la sola verità è la posa (forma spesso meno artificiale – e comunque più rivelatrice – della naturalezza), lavoro cosciente di messa in scena di sé.