Leggendo i libri di Brokken sembra di accedere a un palcoscenico dalla porta secondaria: ci si ritrova al cospetto di episodi celebri, arcinoti, osservandoli da una prospettiva inedita. Tra narrazioni e fatti si instaura una particolare intimità che non può essere ricondotta soltanto alla precisione con cui ciò che è davvero accaduto viene restituito. Larga parte della bibliografia dell’autore olandese corrisponde infatti a una variazione sul tema dell’opera «ibrida»; e se l’ibridazione è frutto di un continuo negoziare tra l’io dell’autore e la materia del reale, Brokken sembra aver raggiunto uno stabile equilibro.

Testi come Anime Baltiche e Bagliori a San Pietroburgo ci mostrano un modo rigoroso di cesellare la storia dei luoghi attraverso biografie particolarmente esemplari. Nella resa del dolore di Anna Achmatova o dell’inquietudine di Dmitrij Šostakovich vediamo emergere autentiche icone della Russia sotto lo stalinismo. Icone dissacranti, che come Satie e Cocteau finiscono per «demolire i valori nazionali»; il passato ha già un suo colore, ma viene fuori in questi libri con particolare nitidezza, grazie alla qualità dell’aneddoto, che spesso sfocia nel retroscena colto.

Nell’ultimo libro-antologia, L’anima delle città, il brano più lungo è dedicato a Parigi, e in particolare ai movimenti artistici che la città ospitava a inizio Novecento. Prima di cominciare a descrivere in ogni minuzia l’esecuzione di Parade, il folle spettacolo di Erik Satie e Jean Cocteau che dà il titolo al racconto, l’autore suona per un attimo arrendevole: «Da libri, cronache e testimonianze si può capire molto di qualcosa, ma vederla è tutta un’altra esperienza». Un atto di ritrosìa, a dispetto della puntualità con cui Brokken ama scandagliare gli eventi storici che andrà a divulgare. Per il resto, il libro – diviso in dodici tappe – pesca da repertori a lui più prossimi, dalla pittura alla musica classica, ma conserva la velocità della letteratura di viaggio.

Il suo è un compendio di vagabondaggi per mezza Europa, che cominciano tra calli e boulevard e si concretizzano puntualmente nelle sale di biblioteche e archivi. Nei Giusti, del 2019, racconta la storia fino ad allora sconosciuta di un console olandese che aiutò migliaia di ebrei a fuggire dalla Lituania stretta tra Reich e Unione Sovietica. Ubriacante e picaresco nella sua spietata fondatezza, questo libro è emblematico dello scrittore olandese, che nonostante sia passato da lavori irrequieti come Jungle Rudy ad altri più libreschi come L’anima delle città, conserva l’attitudine a cercare in modo un po’ febbrile, anche nel grigiore della vecchia Europa, elementi rari, pepite narrative.

Prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura Brokken è stato giornalista per Trouw e l’Haagse Post. Vive attualmente fra la Francia e l’Olanda. All’estero ama esprimersi in francese o in inglese, ma questa volta abbiamo parlato nederlandese, e abbiamo insieme ripercorso, in una sosta all’aeroporto di Linate, un po’ tutta la parabola dei suoi libri.

In «L’anima delle città» sono condensati tutti i diversi motivi che hanno animato la sua letteratura. La passione per la musica classica e le arti visive, ma anche per le microstorie e i fatti rocamboleschi. Come ha selezionato il materiale propedeutico al libro?
In maniera del tutto casuale. Quando viaggio non vado mai alla ricerca di temi, di qualcosa che illustri un punto di vista o una prospettiva filosofica. Posso trascorrere uno splendido soggiorno in una città e innamorarmene alla follia, o al contrario detestarla, senza magari trovare nulla da raccontare. Invece è essenziale che una storia si palesi; una storia piccola o grande, di un personaggio noto o assolutamente sconosciuto: anche un solo elemento, purché mi faccia pensare che lì si nasconde l’atmosfera della città, e da lì posso coglierne lo spirito.

Le sue storie tendono a porsi come di sbieco. Probabilmente perché anche nel trattare un profilo già noto lei riesce a scovarne il lato più nascosto al lettore. Questi elementi lei preferisce cercarli o costruirli ad hoc?
Ha ragione, per cominciare ho bisogno di un dettaglio rivelatore, che condensi qualcosa di più grande, e sia in qualche modo eloquente. Ad esempio, il padre di Sergej Éjzenstejn era un famoso architetto di Riga, e aveva quaranta paia di scarpe per le quali si era fatto costruire un armadio apposito. Quando nel suo film Ottobre mise in scena Kerenskij, l’ultimo primo ministro della Russia zarista, che saliva una scalinata, Éjzenstejn si concentrò esclusivamente sulle scarpe del personaggio, una lunghissima inquadratura di quelle scarpe ben lucidate: erano il simbolo del potere, e lì risiedeva il suo ricordo del padre. Quando trovo un dettaglio del genere, scrivere viene da sé. Nella mia autobiografia Mijn kleine waanzin (La mia piccola follia) racconto di quando ho cominciato a scrivere: ero molto piccolo, avevo sette anni. Mio padre era pastore protestante e aveva dei quaderni su cui appuntava le sue prediche. Lo vedevo scrivere su quei quaderni stupendi, di una bellissima carta spessa, e presi a imitarlo. Quando partivo per qualche gita o andavo in vacanza nella Veluwe, in Olanda, mi portavo sempre dietro un diario: il primo lo scrissi a dieci anni. A sedici, diciassette anni scoprii i film di Bergman, e mi impressionarono al punto che decisi che sarei diventato regista. L’interesse per la sfera visiva era già comparso qualche tempo prima, quando avevo iniziato a fotografare e avevo pensato di diventare fotografo.

Alla fine non sono diventato né regista né fotografo – i miei genitori, con la loro gravità protestante, consideravano il cinema un mondo fin troppo corrotto e peccaminoso, una strada che porta dritto all’inferno. Ma quell’influenza è rimasta: non a caso nelle mie storie torna insistentemente un lato figurativo. In apertura metto sempre una scena, anche quando il libro ha un taglio più storico. Ad esempio, I giusti comincia nel momento esatto in cui il protagonista, che è rappresentante della Philips a Kaunas, sta chiudendo il suo ufficio, e sente squillare il telefono. Lì per lì esita, poi si avvia per le scale. Sono le sei di sera, l’uomo sta per andarsene ma decide ugualmente di rispondere al telefono. All’altro capo c’è l’ambasciatore dei Paesi Bassi a Riga, che gli fa: «Jan Zwartendijk, vuoi diventare console?» Ecco, quando ho parlato di questa scena a alcuni registi mi hanno detto: «non occorre cambiare nulla». Anche il racconto più breve deve avere un che di visivo, altrimenti non funziona.

I suoi libri sono al tempo stesso molto eleganti e notevolmente tortuosi, sia per quanto riguarda il percorso delle sue indagini, sia per le vicende narrate e il montaggio del materiale. Sono libri labirintici. Ha un metodo di lavoro particolare per orientarsi in queste esperienze di scrittura?
È un metodo che si sviluppa sul campo. Tortuoso è una buona definizione; si attaglia in particolare a La rappresaglia, un libro ambientato nel mio paesino d’origine e che riguarda un atto di sabotaggio durante la Seconda Guerra Mondiale con moltissime conseguenze: sette persone innocenti erano state prelevate e fucilate. Mi ero convinto di aver completato le ricerche. Avevo iniziato a scrivere, ero oltre pagina 100, sicuro che il sabotaggio lo avesse compiuto un certo tizio. Ma una notte, mi sono svegliato di soprassalto e ho pensato: ti sbagli, finora hai voluto indugiare su un potenziale colpevole, ma è una visione ristretta. Mi sono alzato e ho deciso di ricominciare da capo la mia indagine. Dopo un po’ sono arrivato a individuare un’altra persona. Sembrava di nuovo che avessi finito, e invece ne è spuntata una terza. Cosa dovevo fare a quel punto? Optai per portarmi dietro il lettore in tutta la mia lunga ricerca: chi legge incolpa il primo sospettato, poi il secondo, poi il terzo, alla fine dubita di tutti. Dalle mie ricerche era emerso che il primo sospettato non aveva nulla a che fare né con la resistenza olandese né con i collaborazionisti, era solo una persona frustrata dalla presenza dei soldati tedeschi che andavano con le ragazze del posto; il secondo era un collaborazionista, un membro dell’NSB; e il terzo era un partigiano, un membro della resistenza. Ognuno dei sospettati raccontava una sua versione della guerra, il primo da una sorta di zona grigia, il secondo, dalla parte dei cattivi, il terzo da quella dei partigiani. Peraltro, a quel tempo stavo anche ultimando Anime Baltiche, nel quale pure si intravede, qua e là, lo stesso procedimento.

Jan Brokken


Nell’«Anima delle città» la figura dell’io narrante, quando è presente, è sempre ben distinta dai personaggi. In qualche modo lei è un viaggiatore o un viandante in storie altrui, e la sua resta una prospettiva esterna. A suo parere fin dove può spingersi la percentuale di finzione quando la voce narrante parla di fatti reali, di biografie altrui?

I fatti non vanno mai smentiti, certo; ma c’è anche da chiedersi cosa siano, «i fatti». A volte guardo film basati su vite reali, e vedo che ad esempio il protagonista ha una sorella che è rimasta uccisa, poi leggo la biografia e scopro che quel tale non ha mai avuto una sorella, o che non è mai rimasta uccisa. In casi del genere mi sembra si passi il limite. Quando descrivo ciò che passa per la testa di Donizetti mentre lui è a Parigi sull’orlo della pazzia, io posso solo immaginare ciò che grossomodo deve aver pensato, e sforzarmi di immedesimarmi: in quel caso non trovo si faccia violenza ai fatti.

L’ho fatto anche con Erik Satie, con Mahler, o con Josef Beuys, con il quale parlai per una giornata intera a Düsseldorf, senza che le prime cinque ore di conversazione portassero a niente. Un Nein dopo l’altro. Poi a un certo punto tirai fuori il periodo della guerra, una esperienza per lui particolarmente drammatica e cruciale: formulai la domanda in modo tale da fargli venir voglia parlare. Ci ho scritto su un racconto, in cui parlo del suo riserbo glaciale e di come tra un nein e l’altro sedesse con un coniglio in grembo, continuando ad accarezzarlo imperterrito. Beuys negli anni Trenta era stato nella gioventù hitleriana, e all’improvviso si mise a raccontare: se a quattordici, quindici anni non eri nella Hitlerjugend, eri un rammollito. Già questo dà un’immagine dell’epoca. Sono sempre alla ricerca di questo tipo di cose, con questi elementi puoi costruire una storia, ma della cosiddetta faction non accetto che ci si inventi qualcosa che non sta in piedi.

Cosa è rimasto di libri come «Jungle Rudy» o «Droevige Kampioen» (Campione dolente) – scritti e ambientati tra i Caraibi e il Sud America – nei suoi lavori più recenti? Oltre all’ambientazione, è cambiata la sostanza del viaggio?
Non direi. In Droevige kampioen racconto la vita di un campione di ping-pong di Curaçao e al tempo stesso la storia di un’isola vista attraverso gli occhi di un nero. È la prestazione più impegnativa che abbia affrontato da scrittore. Non solo mi è costato la più grossa ricerca sul campo che mi sia mai capitata, ma anche uno grande sforzo di immedesimazione in un uomo che è un giovane nero con un’intelligenza fuori dal comune, appartiene alla prima generazione di neri realizzati di Curaçao, diventa dipendente dalle droghe, viene da un quartiere povero. Ho parlato con quest’uomo per quattrocento ore, l’ho seguito ovunque. Non aveva neanche una casa, viveva in una specie di baracca, e una notte dormii anch’io con lui per strada per vedere cosa si prova ad avere a che fare con gli spacciatori. È stato un esperimento importante, presto uscirà un lungo film in Olanda tratto dal libro, ci ho rimesso mano per l’occasione.

All’epoca, quando mi trasferii nelle Antille Olandesi, ero convinto che sarei rimasto lì per sempre: volevo lasciare l’Olanda ed emigrare, entrare a far parte di quel mondo. Alla fine ci sono rimasto dieci anni, durante i quali ho scritto questo libro, poi mi sono spostato in Sudamerica dove ho scritto Jungle Rudy, oltre a un libro sulla musica delle Antille e Voel maar, un romanzo su una donna argentina vittima della dittatura. Una volta esaurito questo ciclo, sia in termini di argomenti che di novità, me ne andai.

Lei trova che lo spirito della città è ancora affascinante, o sono altri gli spazi che oggi la ispirano?
Credo che la città resti un luogo saturo di ispirazione. In uno dei miei ultimi racconti inseguo la figura di un poeta olandese che a New York ha vissuto tutta la vita, Leo Vroman. La prima volta che ci sono stato la città ha affascinato moltissimo anche me, ho speso una montagna di soldi perché volevo vedere tutto, tuffarmi in ogni cosa; ma quando ci sono tornato qualcosa era cambiato, non mi sentivo più al sicuro. Di contro, sono tornato a Mosca dopo molto tempo e la città ha subito una crescita enorme, un fenomeno che in Europa occidentale non si vede da nessuna parte. Attualmente a Mosca c’è un teatro ogni due strade, in dieci strade ce ne saranno quattro, tra teatri indipendenti, nuovi teatri allestiti in vecchi edifici, ma anche teatri comici, d’avanguardia o teatri di prosa dove vedere Cechov. Insomma, hai la sensazione che la gente di Mosca vada a teatro almeno due volte a settimana. Se fossi rimasto più a lungo lì a Mosca ci sarei andato spesso anche io, che non sono molto appassionato di teatro. Quando dico che una città ti ispira è proprio questo che intendo.

I Paesi Bassi vantano una nobile tradizione di scrittori di viaggio. Crede che ciò derivi dal peso dell’esperienza coloniale – che risale in qualche modo già al Seicento, alla Compagnia delle Indie Orientali – o banalmente è l’Olanda che sta stretta ai suoi scrittori?
Credo sia un carattere che risiede nello spirito olandese. I Paesi Bassi sono una piccolissima nazione, che nel sedicesimo, diciassettesimo secolo, fino all’Ottocento ha posseduto niente meno che la metà delle navi che commerciavano in Asia. Io sono cresciuto con l’idea che l’intero commercio asiatico era praticamente in mano agli Olandesi. Quando ero un ragazzino e vivevo dalle parti di Rotterdam, il sabato pomeriggio andavo a vedere le navi che salpavano, in riva alla Nuova Mosa, lasciando il porto. Erano ancora navi da passeggeri, la Nieuwe Amsterdam per esempio, una tre alberi, potrei disegnargliela ora, qui davanti a lei. Nel film di Fellini, E la nave va si vede l’intera popolazione di Rimini su delle barchette immerse nella nebbia. A un certo punto spunta la nave più bella che è in partenza per gli Stati Uniti, e attraverso la nebbia se ne vedono tutte le luci, come in un sogno.

Riconosco quel modo di guardare una nave: è un po’ l’idea che il mondo è grande, e che un giorno lo girerò anch’io, su una nave come quella. La letteratura olandese ha sempre dato il meglio quando ha trattato del «grande mondo». Il nostro più importante scrittore dell’Ottocento, Multatuli, è diventato famoso grazie a un libro, Max Havelaar, ambientato in Indonesia. Poi c’è stato Louis Couperus, un grande viaggiatore, sia nei suoi romanzi che nei lavori giornalistici. Lo stesso vale per uno dei maggiori poeti olandesi, Jan Jacob Slauerhoff. Ecco, io vorrei far parte di questa lista: dopo Slauerhoff viene Nooteboom, e poi si arriva a me. Vorrei inserirmi in questa tradizione. Non so se tutto ciò abbia a che fare con la Compagnia delle Indie. Piuttosto mi chiedo: quando una piccola nazione intende distinguersi, quali mezzi ha per farlo? Non c’è che un modo. Uscire nel mondo. La stessa cosa vale anche per il Portogallo, un paese altrettanto piccolo ma con una grandissima tradizione di mare che ne ha molto influenzato anche la letteratura. Pensi a Pessoa, uno dei migliori scrittori e poeti di sempre. Non a caso, invece, in Russia c’è una cultura molto più territoriale, la letteratura si rivolge di più al proprio territorio che al mondo.

Ovviamente proprio come la letteratura portoghese è intrecciata al passato coloniale, con il Brasile, così la letteratura olandese è intrecciata al suo grande regno coloniale. A un certo punto l’Olanda era l’unico paese ad avere accesso al Giappone, governava sull’Indonesia, su Ceylon – cioè lo Sri Lanka – sul Sudafrica, era un impero mondiale. Solo cinquanta anni fa quella letteratura sulle Indie Orientali era ancora molto nostalgica. E il mio nuovo libro, De tuinen van Buitenzorg (I giardini di Buitenzorg) racconta l’esperienza di mia madre nelle Indie Orientali, e i suoi studi sulle lingue minori.