Da «L’arte degli antichi Paesi Bassi» di Jan Blanc: Jan Gossaert detto Mabuse, Nettuno e Anfitrite, 1516, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie
Da «L’arte degli antichi Paesi Bassi» di Jan Blanc: Jan Gossaert detto Mabuse, Nettuno e Anfitrite, 1516, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie
Alias Domenica

Jan Blanc, arcipelago fiammingo, atlante figurato

Da Van Eyck a Bruegel È la selezione ricchissima delle riproduzioni il punto di forza del volume «L’arte degli antichi Paesi Bassi», edito da Einaudi: purtroppo il contrasto tra storia politica e cronologia artistica frammenta il discorso; alcuni affondi più sperimentali illuminano
Pubblicato 7 mesi faEdizione del 10 marzo 2024

Per chi si fosse persuaso che l’accesso gratuito alle immagini garantito dalla rete avrebbe ridotto la produzione di grandi libri illustrati, il volume di Jan Blanc su L’arte degli antichi Paesi Bassi Da Van Eyck a Bruegel, pubblicato in italiano da Einaudi (trad. Anna Delfina Arcostanzo, euro 150,00) rappresenta una concretissima prova del contrario. Giunto da poco nelle librerie, il titolo dello storico dell’arte ginevrino è cospicuo (616 pagine), pesante (4,5 kg), illustratissimo (543 tavole a colori), a riassumerlo in breve un atlante mozzafiato della pittura fiamminga dall’ultimo quarto del Trecento a, grosso modo, l’inizio della guerra degli ottant’anni (1568).

Come diceva Paola Barocchi, a chi interessa la storia dell’arte potrebbe fare davvero comodo un manuale composto esclusivamente di efficaci confronti fotografici, cui affiancare una raccolta di fonti contemporanee. In questo libro, naturalmente il testo c’è, ma è la selezione delle riproduzioni, in intero e in dettaglio, prevalentemente di dipinti, a farne un’opera particolarmente apprezzabile. I generosi rabbocchi, dove serve, di miniature, retabli, sculture, arazzi, stampe, oreficerie forniscono alla lettrice o al lettore curioso un panorama della produzione artistica delle Fiandre e dei Paesi Bassi Settentrionali, e dei molti luoghi in cui operarono gli artisti fiamminghi (utilizzando questo aggettivo come si faceva prima del sacco di Anversa del 1576), cioè anche a Parigi, nella penisola italiana, e in altre enclave fortunate in cui questi pittori, miniatori, scultori, furono apprezzati e ingaggiati. Sono colpevolmente poco numerose, invece, le riproduzioni di architettura e di cartografia.

Jan Blanc è tutt’altro che nuovo a imprese editoriali come questa, realizzate con cospicui investimenti e, pertanto, lussuose e golose per gli occhi. Prima di questo libro è uscito in francese, nel 2019, sempre per lo stesso editore svizzero Citadelles & Mazenod , Le Siècle d’or hollandais, un volume di 608 pagine, stesso formato, con un bell’apparato di immagini, che prova a rispondere a numerose domande sugli snodi cruciali di quelle cronologie: sulla mancata corrispondenza tra fratture politiche e cesure artistiche, sullo sviluppo dei generi in pittura, sul ruolo della committenza, sul mercato dell’arte; è un libro importante, di ricerca, costruito a partire dai lemmi dibattuti nella letteratura artistica seicentesca dei Paesi Bassi del Nord.

Ma come organizza il suo testo Jan Blanc quando è dell’arte degli antichi Paesi Bassi che deve scrivere? Bisogna ammettere che l’indice e le titolazioni non sono proprio il pezzo forte di questo volume, nonostante l’autore faccia degli sforzi per farsi capire, inserendo in cima a ogni sezione spiegazioni piane che muovono sovente da una definizione contenuta in una fonte o da un brano importante della storiografia pregressa. Non è infatti sempre facile seguire il legame tra l’articolazione del volume e i singoli capitoli. La cronologia seguita è scandita dai passaggi dinastici. Si comincia con i governi del grande ducato di Borgogna (Filippo l’Ardito, Giovanni senza Paura, Filippo il Buono e Carlo il Temerario) e si prosegue con i loro successori all’interno del Sacro Romano Impero (da Filippo il Bello a Margherita d’Austria) fino alle divisioni che conducono all’Atto dell’Aia (1581). Ma i titoli – Varietà (1384-1428), Magnificenza (1428-’67), Maestà (1467-’77), e via dicendo – potrebbero essere applicati a qualsiasi periodo e a molti luoghi nella civiltà delle corti europea del XV e XVI secolo e, di conseguenza, invece di orientare spiazzano. Insomma, la storia politica bisticcia con la cronologia della storia delle opere e degli artisti che è il vero centro delle riflessioni dello studioso, e questo contrasto evidente complica l’assunzione di un punto di vista unitario, che da un libro generalista ci si aspetterebbe.

Da «L’arte degli antichi Paesi Bassi» di Jan Blanc, Gerard Loyet, Reliquiario di Carlo il Temerario, 1467-’71, Liegi, Cattedrale di San Lamberto, Tesoro

Altra materia complessa è fornita proprio dalla geo-referenziazione delle opere e degli artisti. La natura frammentata e mutevole del territorio degli antichi Paesi Bassi dà come esito un’arte pluralista, ed è infatti quando Blanc àncora le proprie riflessioni a un committente, a una corte, che tutto funziona meglio, come nel paragrafo sul ducato di Berry, o sulla certosa di Champmol – dove Jean de Marville, Claus Sluter e Claus de Werwe danno forma a uno dei più eccelsi capolavori di questa età di transizione: la Tomba di Filippo l’Ardito, 1384-1410 – o sulla Bruges di Memling e di Gerard David.

Jan Blanc non crede affatto che ci sia stata una rottura cognitiva, né tanto meno una rivoluzione ottica, nell’opera di pittori come Robert Campin, Jan van Eyck e Rogier van der Weyden, come molti studiosi tendono ancora a enfatizzare, ma solo cambiamenti che si sono sviluppati lentamente. E fa di tutto per spiegarcelo nella prima parte.

Prende le mosse da Vasari e in generale da come le etichette costruite per l’arte italiana guidino le periodizzazioni della storia dell’arte. Il Rinascimento è per gli artisti nederlandesi una questione che appare pienamente solo negli anni venti del Cinquecento, ma senza che si possa davvero parlare negli antichi Paesi Bassi di «Rinascimento». Per l’arte fiamminga del Quattrocento si è usata – spiega Blanc – la definizione di ars nova (Panofsky l’ha fatto, ma è un’espressione presa in prestito dalla musica, che corrisponde ad altre cronologie) o anche quella, fuorviante, di «primitivi fiamminghi» (derivante dalla celebre mostra tenutasi a Bruges nel 1902). Karel van Mander, parlando di Hieronymus Bosch, annota che era il protagonista di un’arte ‘precoce’, in nederlandese vroegh.

La ricerca delle parole esatte per definire, spiegare, descrivere è un leitmotiv che anima tutta questa rassegna, ma talvolta l’intento provocatorio dell’autore ha la meglio, quando per esempio intitola un capitolo La fossilizzazione artistica nel Sud dei Paesi Bassi o quando definisce ‘neerlandesi’ le città di Bourges e di Parigi tra il 1404 e 1409. Anche la scala e il calibro degli artisti esaminati non sono sempre rispettati nell’andamento del discorso e nello spazio destinato ai diversi pittori e scultori. Nell’imporre categorizzazioni forse troppo vaghe come sulla spazialità, la natura del vero, la luce e il colore, il discorso si apre e si frammenta a ogni passo, incorrendo in incisi e indeterminatezze. Dunque, non resterà soddisfatto, temo, il lettore che cerchi in questo volume un facile vademecum con cui scoprire l’arte fiamminga. Di Jan van Eyck, la figura più importante di questa stagione, che è ovunque citatissimo, si dice poco, forse troppo poco. Si parla «di inclusione dello sguardo» nelle sue opere, «di virtuosismo illusionistico», si conclude che «la sua magnificenza artistica» è «come un’esperienza che collega il mondo visibile e profano, accessibile a tutte e a tutti, con il mondo invisibile e sacro, eternamente e infinitamente glorioso» (p. 118).

Di Rogier van der Weyden si osserva di come è adattabile alle esigenze dei committenti. Si suggerisce pertanto la conoscenza del De pictura di Leon Battista Alberti con le sue raccomandazioni eloquenti in tale direzione e di come ciò emerge «nella rappresentazione delle figure quanto nell’espressione delle passioni». Poco e male si parla della «devotio moderna», un aspetto assai rilevante per comprendere il rapporto con il sacro che i predicatori del tempo ingaggiano, specialmente a partire da Memling in avanti.

Alcune pagine sono tendenziose. Quando l’autore sostiene che l’epoca di Carlo il Temerario richiama una maestà e «un’arte della forza», poggiando questa intuizione sul Reliquiario di questi, eseguito dall’orefice Gerard Loyer, un pezzo di oltre 5 kg, di cui 2,1 di argento e 2,9 d’oro: un peso e una ricchezza connessi proprio all’effetto che la maestà può e deve avere sullo spettatore, quello della gravitas.

Per il pubblico dei lettori italiani sono presenti riferimenti eloquenti alle congiunture d’interesse e agli scambi reciproci tra il polo fiammingo delle arti e Firenze, Napoli, Roma, Milano, Venezia, ma niente a che vedere rispetto al volume di Fiorella Sricchia Santoro, alle sistematizzazioni di Paula Nuttall, ai tanti affondi di specialisti come Bert W. Meyer, Nicole Dacos e Giovanna Sapori sul viaggio in Italia degli artisti fiamminghi e olandesi. Jan Gossaert è confrontato con Michelangelo, Quentin Metsys con Francesco Melzi, Joos van Cleve con il Giampietrino; sono belle tavole, ma illustrano il già noto. Specialissimo risulta, invece, il capitolo su La fabbrica neerlandese dell’antico, dove l’originale montaggio delle immagini parla meglio dei corrispondenti testi e è multi-materico, multimediale, contestuale, finendo per costituire una delle parti più sperimentali del volume.

Jan Blanc conosce molto bene le fonti della letteratura artistica nederlandese, italiana, tedesca e francese, dunque più procede in avanti il libro e meglio queste vengono utilizzate, fornendo profondità teorica ai commenti critici. Ecco allora che per la pittura di paesaggio entrano in campo le voci di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, Abramo Ortelio e Karel van Mander. Nella messa a fuoco sul secondo Cinquecento arriva poi qualche utilissima riflessione sul sistema dell’arte, sulla committenza, con osservazioni puntuali sul cambiamento del mercato dopo la crisi iconoclasta del 1566 che colpì le principali città nederlandesi e sulla reazione degli artisti fiamminghi nei territori ancora sottoposti al potere spagnolo.

La parte migliore del testo è certamente rappresentata da quest’ultima sezione: la settima. Vi si sviluppa una prospettiva storiografica più fresca, che per esempio ci dice come gli artisti fiamminghi e olandesi del secondo Cinquecento conoscano l’esilio (era il soggetto di un bel Nederlands Kunsthistorisch Jaarboek). E qui trovano posto nella trattazione alcuni degli artisti che in Europa prendono la via del Nord (come Joris Hoefnagel, Van der Schardt), o quella del Sud (come Anthonie van Saantvoord, Pietro Candido, Gianbologna o Denys Calvaert).

Originali sono anche le riflessioni finali, che esaminano in cosa consista l’immaginario condiviso che emerge dal comune interrogarsi degli artisti in merito alle origini mitiche, storiche e artistiche della loro terra sia al Sud che al Nord dei Paesi Bassi, superando le divisioni politiche intercorse nel frattempo. Si inquadrano in questo contesto iniziative come quella di Hieronymus Cock (pubblicate postume) della serie Pictorum aliquot celebrium Germaniae Inferioris (I ritratti di alcuni famosi pittori della Germania inferiore), accompagnata dalle poesie di Domenico Lampsonio, così come l’intera opera di Pieter Bruegel, tesa a rappresentare la vita e i costumi dei contadini nederlandesi nel modo più esatto possibile. È proprio intorno a Bruegel, e ai suoi documentatissimi scavi anche linguistici sui modi di dire fiamminghi, in dipinti spettacolari come I proverbi di Berlino, che si chiude questo affascinante volume, che a noi suggerisce il collegamento a operazioni approntate con medesime intenzioni qualche anno prima da Erasmo da Rotterdam con la pubblicazione degli Adagia. La militanza di Bruegel per il patrimonio della cultura materiale della sua terra natale in tempo di guerra fratricida produce poi assonanze con il presente che è doloroso, ma anche impossibile, non evidenziare.

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