«Le forze conservatrici agiscono ora su tre fronti: quello del golpismo in Venezuela, quello dell’impeachment in Brasile e quello istituzionale in Argentina» dice a Il Manifesto James Petras.

Analista politico e saggista statunitense, Petras ha scritto molti libri sul ruolo degli Usa nel sud del mondo e in particolare in America latina. Recentemente, l’editore Zambon ha pubblicato «Repubbliche sorelle. Venezuela e Colombia di fronte all’imperialismo contemporaneo»: 12 saggi introdotti da Lucio Bilangione e con un documento storico delle Farc sul processo di pace in corso all’Avana.

L’Argentina va a destra, il Brasile è in bilico, il Venezuela non ha il vento in poppa. E gli Stati uniti hanno firmato l’Accordo transpacifico. È finito il ciclo progressista in America latina?

James Petras, foto @Reuters
James Petras, foto Reuters

Nei primi anni del nuovo millennio sono sorti grandi movimenti popolari. In Argentina hanno fatto cadere tre governi, il movimento piqueteros allora, bloccava le strade, nelle grandi città c’era un doppio potere basato sui consigli di quartiere, di fabbrica. In quella situazione la sinistra poteva rovesciare un governo ma non aveva abbastanza forza per dirigere il percorso. Nestor Kirchner (e poi Cristina) e Lula in Brasile hanno rappresentato il centrosinistra nella misura in cui hanno accettato di portare avanti alcuni programmi sociali contro la povertà, la disoccupazione, i bassi salari. Con un piano di investimenti pubblici sono riusciti a recuperare l’economia, hanno salvato il capitalismo dalla bancarotta. Allo stesso tempo, però, hanno debilitato i movimenti popolari, cooptandone molti dirigenti. Il nuovo ciclo di crescita ha consentito una relativa redistribuzione delle entrate provenienti dal commercio estero della soia, del ferro o del petrolio che avevano prezzi alti nel mercato. Questo ciclo termina con la fine della prima decade. Dal 2011-2012, le forze conservatrici riprendono forza: la caduta dei prezzi, la pressione del settore finanziario per ridurre la spesa sociale, il deficit, spingono i governi progressisti a fare concessioni all’Fmi, ad accettare misure di austerity. Soprattutto in Brasile, questo produce tre poli di conflitto: una destra insurrezionale, classi popolari disincantate e un centrosinistra debilitato, incapace di difendere le conquiste prodotte negli ultimi anni. In questo contesto, Washington ne approfitta per sospingere le destre di opposizione: sostiene Macri in Argentina, Aecio Neves in Brasile e cerca di destabilizzare il governo ecuadoriano o boliviano. Washington oggi agisce su tre fronti: quello del golpismo, in Venezuela, quello dell’impeachment in Brasile e quello della via elettorale in Argentina. Un pericolo che va al di là di un cambio di governo perché mira a far ritornare il continente alle politiche neoliberiste degli anni ’90, alle privatizzazioni subordinate agli Usa e allo smantellamento dell’integrazione latinoamericana. La sfida che abbiamo di fronte non è da poco: tornare indietro o mantenere le principali conquiste degli ultimi anni anche nelle diverse condizioni.

Tuttavia, dal Brasile all’Ecuador, dall’Argentina alla Bolivia, e in parte anche in Venezuela, alcune frange di sinistra considerano tempo perso la difesa di governi progressisti che non hanno mantenuto le promesse.

Penso anch’io che Correa e Morales non abbiano mantenuto molte promesse. L’estrattivismo continua a essere asse centrale delle loro politiche, hanno firmato accordi con il gran capitale. In una recente riunione del Financial Times, a New York, Morales ha invitato oltre un centinaio di grandi imprenditori a investire nel suo paese, per sfruttare le risorse minerarie. Non bisogna esagerare la portata di sinistra che hanno questi governi, ma non bisogna neanche tacere che hanno portato benefici sociali e una politica estera critica dell’imperialismo: la battaglia contro il debito estero in Ecuador, il riscatto degli indigeni in Bolivia. E per questo non sono d’accordo con quelli che preferiscono marciare con l’oligarchia anziché contestarla. Non capiscono che le destre possono appropriarsi delle critiche per andare al potere e spingere ancora più a fondo l’offensiva conservatrice. Per il Venezuela, invece, le cose sono più chiare. Non a caso, è da tempo il principale obiettivo degli Stati uniti.

…E il 6 dicembre ci saranno le elezioni parlamentari. Che scenario si prospetta in Venezuela?

Gli Stati uniti hanno investito milioni di dollari nella campagna delle destre e dei loro gruppi extraparlamentari, in Venezuela. La considerano una ghiotta opportunità per creare una paralisi nel governo e, con una eventuale maggioranza parlamentare, esigere subito un referendum per cacciare Maduro. In ogni caso, la destra ha preannunciato che non riconoscerà il risultato, griderà alla frode e mobiliterà la sua forza di shock per le strade. È uno scenario che abbiamo già visto, e con la situazione di tensione alla frontiera con la Colombia non possiamo escludere nessuna possibilità. Non dimentichiamo che, durante la recente chiusura della frontiera, la Colombia ha rifiutato di riconoscere i problemi creati dai contrabbandieri e dai paramilitari che agiscono al confine col Venezuela. Gli Usa pensano al processo di pace in Colombia come un’occasione per prendere due piccioni con una fava: eliminare la guerriglia e liberare truppe colombiane per destabilizzare il Venezuela e riprendere il controllo su tutta l’America latina e i Caraibi.

Non crede che la soluzione politica in Colombia possa andare in porto? Pensa che anche questa volta la guerriglia finirà intrappolata in un bagno di sangue?

Le trappole sono tante e così pure i punti da chiarire. Innanzitutto perché le parti non hanno trovato accordo su un punto fondamentale: le forze militari governative. La proposta di Manuel Santos mira semplicemente a ottenere il disarmo unilaterale delle Farc. Ma cosa dice degli oltre 500 mila militari armati che incombono sui movimenti sociali? E dei paramilitari che non sono mai stati davvero smobilitati? Cosa garantisce che, una volta riconsegnate le armi, i guerriglieri non finiscano nuovamente massacrati come in passato? Non si può guardare alla pace solo in termini di disarmo unilaterale. Un secondo problema è costituito dalle basi militari Usa. La loro nutrita presenza sul territorio non è stata oggetto di negoziato. E finché la «consulenza» del Mossad e della Cia continuerà a pesare sui ministeri degli Interni e della Difesa colombiani, parlare di pace sarà perlomeno azzardato. Negli Stati uniti vi sono forze che spingono per concludere un accordo di pace con le Farc per disarmarle e per liberare effettivi militari da impiegare nelle missioni regionali.

Il post-conflitto è però anche un buon affare: lo hanno ribadito sia Santos che i suoi protettori nordamericani

Negli Stati uniti la tendenza alla guerra, all’aggressività in politica estera, all’uso indiscriminato della forza oggi è molto potente: nei confronti della Russia, dell’Iran, anche della Cina. L’abbraccio tra Obama e Netanyahu ogni settimana stritola le vite dei palestinesi. A Cuba, spingono perché si affermi uno sviluppo capitalista. Con l’Iran premono per un disarmo unilaterale senza sospendere davvero le sanzioni. E se si rafforza l’influenza interna degli ufficiali Usa legati a Israele, gli accordi potrebbero essere sabotati. Una tendenza aizzata da una destra interna che vuole espellere 11 milioni di migranti, pensa che la teoria dell’evoluzione non abbia basi scientifiche, che il riscaldamento globale non sia una realtà: una destra arcaica, ma che rappresenta il 30 o 40% dell’elettorato, e su cui Wall Street ha potere ma non sufficiente controllo. Se Obama ha dato prova di militarismo, ma ha comunque proposto un piano per l’immigrazione, per la salute dei più poveri, i Repubblicani e ancor più la loro estrema destra possono andar fuori controllo: al punto da distruggere i mercati, da confliggere con gli interessi economici di quei settori del capitale multinazionale che avrebbero, per esempio, continuato a fare affari con Gheddafi e non hanno gradito di vedersi complicare le cose in questo modo. Dalla Silicon Valley arrivano inviti ad abbassare la tensione con la Cina, ma intanto la Cina è fuori dal Tpp e ne è il bersaglio.

Dall’Europa, al Centroamerica e agli Stati uniti, gli indignados protestano contro la corruzione e contro un sistema politico escludente. Può nascere da lì un’alternativa?

La corruzione dei sistemi politici dilaga, in America latina come in Europa. Negli Stati uniti è istituzionalizzata attraverso le lobby che vanno al Congresso per comprarsi i deputati. L’etica è un fattore importante, ma per farne cosa, per moralizzare il capitalismo? Perché il capitalista persegua i propri scopi senza dover comprare i congressisti? Senza porsi la domanda di fondo, l’indignazione rifluisce e lascia le grandi masse senza prospettiva. Da noi, il movimento Occupy ha avuto grande impatto mediatico, molti fuochi pirotecnici, un bel po’ di repressione, ma senza un’agenda politica organizzativa, è già preistoria.