«Non sono un uomo di parole», ha affermato James Nachtwey (Syracuse, New York, 1948) alla presentazione della sua mostra a Palazzo Reale. A parlare, anche in occasione di questa importante retrospettiva itinerante James Nachtwey. Memoria (curata da Roberto Koch insieme allo stesso fotoreporter) – prodotta dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale, Civita, Contrasto e GAmm Giunti è la prima tappa (fino al 4 marzo 2018) di un serratissimo tour internazionale – sono le sue fotografie. Immagini che coniugano una narrativa che è allo stesso tempo oggettiva e metaforica. «È un viaggio anche nella mia memoria personale», così Nachtwey ha definito la mostra. Un viaggio che diventa universale nel momento stesso in cui ne viene condivisa la responsabilità etica. Non si può rimanere testimoni impassibili: vedere vuol dire prendere una posizione rispetto agli eventi della storia, far conoscere realtà anche durissime, atrocità incommensurabili.

Il dolore è tangibile, come la paura. Ma per James Nachtwey è un monito, un invito a riflettere per procedere in una direzione opposta: gli eventi che ha registrato non devono essere dimenticati e neanche ripetuti. «Ho voluto diventare un fotografo per essere un fotografo di guerra. Ma ero guidato dalla convinzione che una fotografia che riveli il volto vero della guerra sia quasi per definizione un’immagine contro la guerra.»

È così fin da quando, ai tempi in cui studiava storia dell’arte e scienze politiche al Dartmouth College (1966-70), vedere le foto della guerra in Vietnam e del Movimento americano per i diritti civili fu decisivo nella sua scelta professionale e di vita. Dal 1976, quando iniziò a collaborare come fotoreporter per una testata del New Mexico, spostandosi nel 1980 a New York dove ha lavorato per Time, associandosi successivamente all’agenzia fotografica Black Star per poi diventare membro della Magnum, ha collezionato un archivio di oltre 500mila immagini che nel 2016 è stato acquisito dall’Hood Museum of Art del Dartmouth College. Spesso parole come guerra, carestia, fame, aids, genocidio, sangue, terrore, violenza… si traducono in termini astratti, diversamente le fotografie-testimonianze di Nachtwey ci costringono a non chiudere gli occhi: che siano scatti in bianco e nero come il profilo del giovane sopravvissuto di un campo della morte Hutu in Rwanda (1994), la madre che accudisce il figlio malato di epatite E in un ospedale nel Darfur (2004), la donna avvolta nel burqa che accarezza la lapide del fratello ucciso dai talebani in un cimitero afghano (1996), lo sguardo disperato di un bambino in un orfanotrofio per «incurabili» della Romania (1990), o a colori come gli scatti apocalittici dell’11 settembre che traducono il senso di precarietà che ha avvolto luoghi e persone, insieme al denso pulviscolo misto al fumo e alla polvere delle macerie (con queste immagini Nachtwey ha vinto uno degli innumerevoli World Press Photo della sua carriera). Dal Sudan alla Cecenia, dal Kosovo al Nicaragua, dall’Indonesia all’Albania, dall’Alabama all’India, perché il lavoro funzioni c’è bisogno di concentrazione e anche d’istinto ma, prima di tutto, di rispetto.

Una qualità che gli è valsa numerosi riconoscimenti a colui che è considerato il più grande fotografo di guerra di tutti i tempi, insieme alla stima e ammirazione sconfinata di colleghi a ogni latitudine del globo. Anche percorrendo le sezioni della mostra James Nachtwey. Memoria non sfugge il sentimento genuino di empatia del fotografo che sa restituire la dignità che appartiene al soggetto.