Domenica scorsa James Ivory, a 89 anni, è entrato nella storia come il più vecchio vincitore degli Oscar. Con Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, Ivory ha vinto con la miglior sceneggiatura non originale.

L’estate scorsa ho avuto l’occasione di incontrare il leggendario regista a Venezia per parlare del suo adattamento del romanzo di André Aciman e di visitare il set di un nuovo film basato sul Carteggio Aspern di cui è produttore.

Era molto soddisfatto del calore ricevuto dal film di Guadagnino. La prima pubblicità era appena arrivata sul web e mi ha chiesto di cercare la locandina del film sul mio cellulare per controllare che il suo nome fosse presente, ben chiaro.

«Volevano che io e Luca co-dirigessimo il film, cosa che aveva un senso per la presenza di scene in italiano. Ho accettato ma a condizione che potessi scrivere io la sceneggiatura. Ci ho messo nove mesi a New York ma alla fine i finanziatori non volevano che il film avesse due registi. Erano convinti che si sarebbe rallentata la produzione, perché due registi avrebbero discusso ogni scena, e forse avevano ragione».

Gli chiedo come ci si sente ad avere qualcun altro a interpretare il tuo lavoro.

«È stata un’esperienza nuova per me. È la prima volta che non dirigo una mia sceneggiatura, mi sono invece ritrovato ad essere soltanto lo scrittore, senza la stessa autorità. L’importanza degli scrittori è illustrata dal fatto che non vengono quasi mai invitati nelle sale di montaggio. Con Ruth [Prawer Jhabvala, collaboratrice storica di Ivory] lo facevamo sempre. Lei veniva e vedeva tutta la prima versione. Così potevamo capire tutti gli sbagli che avevamo fatto».

Entrambi Ruth e lo storico partner creativo e partner di vita Ismail Merchant con cui Ivory fondò Merchant Ivory sono stati ringraziati dal palcoscenico del Dolby Theater domenica sera; un triumvirato di cui Ivory è l’unico sopravvissuto ma che per lui è sempre vivo.

Venezia conserva dei ricordi molto profondi per Ivory. Arrivò a Venezia sessant’anni fa; un giovane soldato in licenza con una macchina da presa. In pieno inverno girò un documentario da solo, portandosi tutti gli attrezzi; si trattava di un corto intitolato Venice: Themes and Variations. Il film trovò un distributore negli Stati Uniti e venne citato dal New York Times come uno dei 10 documentari migliori del 1957.

Arriviamo sul set di prima mattina. Qui Ivory aiuta e sostiene il giovane regista esordiente francese Julien Landais. Vanessa Redgrave recita la parte di Juliana e sua figlia, Joely Richardson, la parte di Miss Tina, la nipote.

«È una cosa storica per me: avere Vanessa Redgrave e Henry James», dice Ivory.

Merchant Ivory ha girato quattro film con l’attrice inglese. «Ruth ed io abbiamo cominciato a scrivere una sceneggiatura basata sul Carteggio Aspern già nel 2011» dice Ivory. «Ma mi sono rotto una gamba e poi anche Ruth ha iniziato ad avere problemi di salute, così abbiamo abbandonato l’idea. La mia versione era ambientata nel 1950 invece del 1880 dell’originale».

Dopo un incontro occasionale ad una cena, Ivory comincia a collaborare con Landais sulla nuova versione. Il suo entusiasmo sul set è ovvio. Spesso Landais, come pure Richardson e Redgrave, cercano i suoi consigli e lo ringraziano. Sono i dettagli che lui ama esaminare attentamente, come una frase Jamesiana particolarmente ardua o la visiera verde indossata da Juliana mentre guarda con sospetto l’accademico americano (Jonathan Rhys Meyer) mentre cerca le lettere del poeta morto, Aspern. Ci troviamo sul piano nobile di un palazzo che sotto ospita il padiglione iraniano della Biennale – a guardare la Redgrave con indosso la visiera verde.

«La visiera è stata creata proprio qui a Venezia. Tutto può essere fatto qui. Gli artigiani italiani che lavorano per il cinema sono i migliori. Non ho nulla contro gli inglesi o i francesi ma gli italiani hanno qualcosa in più».

Dopo il suo esordio a Venezia i primi film di Merchant Ivory lo portano altrove: in India per Il Capofamiglia (1963) e Shakespeare-Wallah (1965), influenzati dal grande regista indiano Satyajit Ray. Negli anni Ottanta Merchant Ivory perfezionano il cinema di prestigio, creando una serie di capolavori, spesso tratti da opere letterarie come i romanzi di E.M. Forster ed altri autori.

Oggi, con l’avvicinarsi dei vari anniversari, i film sono stati riproposti in versioni restaurate. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna Casa Howard e Maurice sono già usciti nelle sale nelle nuove versioni.

«Maurice era un film pionieristico« gli dico, notando il filo che collega un classico del cinema gay con il successo di Chiamami col tuo nome.

«La gente non lo sentiva così all’epoca ma ora, volgendo indietro lo sguardo, tutti sono d’accordo. La cosa interessante è che quando uscì non ci furono recensioni negative sull’argomento: un film gay a lieto fine ai tempi dell’AIDS. Anche finanziare il film non fu un problema perché Maurice venne subito dopo Camera con vista».

A pranzo parliamo degli attori con cui ha lavorato, vincitori di tantissimi premi per i suoi film. Parliamo di Helena Bonham Carter, Hugh Grant – «annoiato dalla recitazione ma poi diventato famoso, e dopo un po’ si è annoiato anche di questo» – Christopher Reeve e Daniel Day-Lewis «era nato per recitare quel tipo di ruolo [Cecil Vyse in Camera con vista] ma non lo ha più recitato dopo».

Del suo recente ritiro dal cinema, si dice scettico: «Cos’ha? 58 anni? Quando arriverà a 68 ci sarà un grande ruolo di vecchio e lui lo interpreterà. Perché no?»

Anthony Hopkins e Emma Thompson lavorano in coppia in due film: Casa Howard e Quel che resta del giorno; quest’ultimo però lo aveva quasi perso. «Mike Nichols comprò il libro. Ma all’ultimo minuto decise di non farlo. Seppi che era già salito sull’aereo per Londra quando cambiò idea e scese».

Hopkins era già coinvolto, aveva letto una sceneggiatura scritta da Harold Pinter poi abbandonata. C’erano altre attrici per il ruolo della governante preso dalla Thompson, tra cui Angelica Huston e Meryl Streep. «Ho saputo che Meryl poi ha cambiato agente, perché non era stato abbastanza bravo da assicurarle la parte».

Ivory mostra un’ovvia simpatia per gli attori, come quando parla di Paul Newman nel ruolo del cattivo in Mr. & Mrs. Bridge: «Era birichino. Erano ancora gli anni in cui gli piaceva andare a correre con le macchine ma non avrebbe dovuto, gli era infatti vietato dall’assicurazione. Ma ogni fine settimana lo faceva presentandosi il lunedì mattina con il naso bruciato dal sole».

Dopo tutti gli adattamenti letterari – non solo E.M. Forster e Henry James ma Kazuo Ishiguro e Jean Rhys – chiedo se c’è uno scrittore che avrebbe voluto portare sullo schermo: «Mi sarebbe piaciuto fare un Francis Scott Fitzgerald ma eravamo all’inizio e non c’erano soldi. Poi tutti i suoi romanzi sono stati adattati tranne Belli e dannati che amo. Volevo anche fare una serie TV basata su I racconti di Pat Hobby. Ero certo che Jack Lemmon sarebbe stato perfetto ma alla fine non se ne è fatto nulla».

Durante il pomeriggio torniamo sul set per vedere Vanessa Redgrave girare le sue ultime scene.

Il suo personaggio deve cadere sul pavimento e l’attrice ottantenne vuole farlo davvero. Inizia una discussione sulla sicurezza, sull’aspetto realistico e l’assicurazione. A un certo punto viene richiesta la presenza di Ivory per placare gli animi – «Siamo molto fortunati ad avere Jim qui con noi», dice la produttrice Gabriela Bacher – e presto tutto è risolto.

La scena è finita, e Ivory mi guarda con un sorriso enorme: «Come sei stato fortunato a venire oggi!» mi dice.