Lui si chiama sempre Bond. James Bond. L’idea di fondo è che non sia mai cambiato e che niente cambi. Ovviamente niente è come prima. Anche se ciò che permette di funzionare all’incanto collettivo è convincersi che sia sempre la prima volta. Paramnesi della mitologia di massa. La riuscita indiscutibile di Skyfall, precedente film della saga bondiana, e metro di paragone presente e futuro delle prossime imprese di 007, risiede proprio nell’ineludibile malinconia, forse un tantino reazionaria, per un mondo comprensibile, leggibile, precedente al crollo dei muri di prima. Skyfall sta al mito di 007 come la (N)Ostalgie per la RDT sta alla Germania riunificata.

Inevitabile, quindi, che Sam Mendes tentasse di riannodare i fili dal racconto collocandosi nell’hic et hunc della terra desolata della comunicazione globale. E infatti l’ombra di Edward Snowden è il vero sottotesto di Spectre: il controllo globale dell’informazione già anticipato dal Cavaliere oscuro di Christopher Nolan. Il Q di Ralph Fiennes lo spiega bene, tentando addirittura, retroattivamente, di rendere politicamente corretta la licenza di uccidere interpretata come possibilità di non premere il grilletto.

Non ci si sorprende, dunque, se nel film si respira un’aria analogica (nonostante il dispiego di virtuosismo produttivo), da avventura d’altri tempi, con set-piece più cartooneschi che virtuosi secondo la linea dettata dal modello Fast&Furious. La Spectre, infatti, sembra avere non pochi punti di contatto con la Acme dei Looney Tunes (la ditta che fornisce i marchingegni infernali a Will Coyote per mettere il sale sulla coda a Beep Beep).

Ramificata, micidiale, implacabile, onnipresente, ovviamente letale, multimiliardaria. Si vorrebbe davvero sospendere l’incredulità di fronte alla minaccia planetaria della Spectre, ma il dejà vu, elemento strategico essenziale per far scattare l’adesione vintage, è talmente forte che a tratti paralizza il piacere della fabula. Oberhauser, l’arcicattivo di turno interpretato da Christoph Waltz (quanta strada da quando nel 1983 stava in scena a Zurigo con Katharina Thalbach interpretando Mercedes di Thomas Brasch!), ostenta complicazioni e turbe affettive da manuale psicanalitico nei confronti di 007.

«Ero sempre io, James…», dichiara con soddisfazione, quasi temendo che non scatti l’agnizione. Così, saltando da un angolo all’altro del pianeta, in perfetta continuità produttiva, 007 insegue in realtà lo spettro dell’origine che nel frattempo si trasformata in minaccia globale neo-capitalista. Come dire, il guardiano del sistema, deve tutelarci dai nuovi guardiani che vorrebbero guardarci troppo da vicino. Se il passaggio verso la disillusione messo in scena da Skyfall era addirittura ineccepibile, vantando anche il miglior incipit bondiano di sempre, in Spectre, piano sequenza iniziale a parte, si ha come l’impressione che una certa stanchezza, forse addirittura demotivazione – indicative le parole di Craig che ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di interpretare un altro Bond – abbiano preso il sopravvento.

Come accadeva in Skyfall (il salto sul treno in moto…) anche Spectre preleva/omaggia il cinema di Jackie Chan (l’aereoplano che passa attraverso il villaggio di montagna è una rielaborazione della frana di automobili nella baraccopoli di Police Story). Dave Bautista ce la mette tutta per sembrare minaccioso, ma risulta troppo unidimensionale. Qualche parola in sceneggiatura potevano concedergliela. La francese Madeleine Swann, interpretata dalla splendida Léa Seydoux, funziona bene ma a lasciare il segno è soprattutto una Roma davvero da fine del mondo, per una volta sola «bella» e «sensuale», tutta da godere (e l’analogia con Monica Bellucci scatta inevitabile). Peppe Lanzetta, invece, è semplicemente da applausi. Speriamo di vederlo presto di nuovo alle prese con 007 (mica muore…). Magari tentando di far pagare a James Bond il pugno e il volo che gli fa fare.