Non sono riuscito a cogliere la luce giusta per uno scatto.

AL MA’SARA

L’immagine è solo nella mia memoria. Nella stanza troppo grande, tra la folata dei bambini vestiti leggeri, dalle bocche con le parole uscivano nuvolette dense. Fuori della porta, nel primo sole, sembrava tiepido.
Scarsa terra tra sassi fittagni nella schiena brulla, intorno all’edificio adattato ad asilo. Appena più in basso, tra le chiazze di suolo, a rinforzo degli olivi e di una presetta di radicchio, qualcuno aveva ammontinato carrettate di terrioletta. Ho pensato di rimanere seduto lì, sopra un sasso, in un giorno d’autunno, a guardare il cielo ventoso. Sarebbe venuto alla siepe il pettirosso?

Il paese non si sa dove sia. I bambini più volte hanno visto i grandi insultati, il loro padre picchiato dagli armati. Qualcheduno, poi, è sparito. L’uomo che ci parla avrà forse trent’anni, ma non sorride. I bambini si tengono per mano. A turno, qualcuno è consolato dalle maestre. Volontarie senza compenso, ci dicono. Due o tre avranno quindici anni.

AL JYFLIK

Il grande pannello rettangolare rosso è proprio davanti casa: zona di esercitazioni militari. Del pericolo sei avvertito. Per questo, quando le camionette arrivano, si deve lasciare di corsa il lavoro e la casa. Intorno, nella pianura del Giordano, malgrado la polvere di gennaio, resiste qua e là il verde. «Al rientro troviamo sempre danni nei campi e alle case». Il giovane parla con foga della piccola biblioteca che le donne faranno nascere. I muri profumano d’imbiancatura. Nella stanza le sedie disposte per noi non ci bastano. «Stiamo attenti ai bambini, ma non sempre ci accorgiamo delle bombe dimenticate». Oltre la finestra, poco distante, s’impennano le ripe desolate che nascondono Hamman.

AL FASAYIL

La nostra fila per il bagno principia paziente in mezzo al piazzale interrato dell’unica casa a due piani. Entra in una stanza a pian terreno con pochi mobili di legno, gira in una stanzina buia e sale tre scalini dove termina dietro una tenda di stoffa fiorita, proprio sopra un piccolo balzolo, cui è addossato il fornellino con cui delle donne lessano il riso e cucinano carne di pecora. Ma oramai ci siamo abituati. I bagni sono rari, quasi quanto l’acqua.

La spianata polverosa non ha siepi o confini, entra tra le casupole rabberciate, si ritrae davanti capannette di somari e chiuse di branchetti di pecore. La strada appena vi si distingue. Dove sono i campi?

Ogni tanto, tra i piedi, stecchi spinosi di giuggiolo. Uno di noi si china a raccogliere: «ecco da dove viene la corona di Cristo».

La costruzione in cui pranziamo, discosto dalla casa, ha un’unica stanza rotonda, con un’entrata e tre finestre, non alta ma non asfissiante. I correnti e i ritti sono stati inchiodati da poco. È l’edificio comune del villaggio. «L’abbiamo tirato su in una notte», di terra battuta impastata di paglia. Sul ripiano, al centro, riso, salse e carne di pecora che le donne ci scodellano con l’aria della festa. Alle pareti un cartello giallo con un triangolo rosso: pericolo mine, in arabo, ebraico e inglese.

La coppia che ci ha accompagnati è giovanissima, la ragazza mostra una gravidanza appena pronunciata. L’uomo la guarda taciturno. È, ci si dice, di un campo profughi. «Certo, sì, la scuola era abusiva. Ma la strada che portava al villaggio più grande, l’esercito l’aveva tagliata con uno scavo profondo». Le autorità militari imposero di abbattere quanto era stato costruito. «Allora principiammo a ballare e cantare insieme con i bambini, davanti la fila dei militari». Se non possiamo costruire, allora ci divertiamo.

Si vela la luce sulla finestretta della stanza, che oramai le donne sparecchiano. Cinque o sei pecore dentro il capanno a due passi dalla porta belano verso di noi. Si ballò per giorni, mentre dietro fu finita la stanza. «I bambini la poterono usare due o tre volte». Poi arrivarono le autoblindo e una ruspa.

AT TUWANI

Ha un viso mite, con una peluria ancora rada. Il berretto di lana è tirato sopra le orecchie, anche se ha un nostro accento montanaro. C’è, tra noi, chi l’assilla, arrancandogli dietro per il crostolo sassoso con scarsa erba. «Si dirà a tutti, più avanti».

La formalità, nei rapporti umani, non è solo lo strumento del dominio. È anche la misura del rispetto, un esercizio contro l’egotismo. «Olmo!», qualcuno dei suoi lo chiama.
Per quanto si sia saliti alla fine della costa, sul colle vicino più alto, proprio a ridosso, immancabile si erge il recinto: colonie o avamposti militari. Perché l’Impero Ottomano, spiegano in tribunale, riservava al demanio le cime.

La ragazza incinta aveva raccontato con voce calma del loro viaggio sperato in Giordania, fermati al confine. Solo dopo mesi aveva potuto rivedere il giovane sposo, nell’aula del processo. Sorrideva la ragazza, il marito sedeva a capo chino: signor Giudice, nel giorno e nell’ora della vostra accusa, l’imputato si sposava a mezza giornata di distanza. Il giudice militare, guardato il certificato, prese il capo d’accusa, scrisse qualcosa: «Non è un problema. Ho cambiato data: se avete documenti che attestino che non era presente, mostrateli».

Il sole è ora più tiepido. Sul colle accosto, proprio sullo sperone è arrivato il militare. Ci guarda in piedi, a braccia incrociate.
Il significato della legge, come delle parole, lo decide chi comanda.

L’uomo davanti a noi ha un volto scavato, dentro il cappuccio della felpa. Vedo il naso aquilino. Fuma, nei brevi intervalli della traduzione dalla lingua dei padroni. È di mezza età, mi sembra. Ha il corpo e le mani dei contadini. Olmo ha lasciato il posto a una ragazza forte, dal viso severo e fermo. Il sole scalda la nostra destra, appena di spalle. L’esile tracciato di strada tra i massi e i ciottoli in basso si fa più nitido: il poggio declina in un falsopiano terroso. Dal punto in cui ci hanno accompagnati, si scorge la strada costeggiare alla sua destra alcune serre, la si vede proseguire per altri duecento metri per poi lambire il recinto di rete e filo spinato della colonia.

Gli occhi dell’uomo che ci parla col tono di chi non ha bisogno di scegliere le parole fissano altro. Spesso abbassa la testa. Dietro quelle alture, a più di un’ora, la strada porta ad altri villaggi di grotte e capanne di copertoni. Da lì vengono a piedi i bambini per la scuola elementare. «Ragazzi e uomini sbucano dalla rete di protezione. S’avventano giù a volto coperto, urlando con sassi e bastoni, al loro passaggio».

L’uomo spenge in terra la sigaretta. Ci guarda uno a uno. I volontari internazionali non accompagnano solo i bambini, perché i pastori vengono circondati e anche le pecore sequestrate dall’esercito e gli olivi aggrediti. «In una notte, duecento sono stati troncati».

NABLUS

La stanza, dai muri in pietra ben ordinati, è lunga, non alta, senza finestre, con volta a botte. Sembra un rifugio. Ci sediamo ai lati, in fila. Le donne che ci ospitano ci accolgono sorridenti. Una bambina passa con un vassoio di dolcetti. A una a una, prima di prendere parola, si alzano in piedi. Si chiamano a turno. Parlano della propria reclusione, del loro sostegno ai bambini orfani o che hanno sofferto le diverse violenze.

Una donna entra in ritardo, saluta allegra e va a sedersi in fondo alla stanza. Al suo turno, si avvicina con passo energico. Ha un’età matura, folti capelli neri, volto bello e spigliato. «Quando finalmente hanno scarcerato mio fratello e l’ho visto tornare a casa, non stavo dalla contentezza. Non dico della nostra mamma, già in là con gli anni». Dopo qualche tempo, i militari bussano ancora nel cuore della notte. «Salgono e prendono me. Io sono felice, perché non erano tornati per mio fratello». Poi chiedono anche di lui e la vecchia madre si aggrappa piangendo al soldato. «No, grida, sono i miei due occhi! Non prendeteveli tutti, singhiozzava, prendetemelo uno per volta!».

VIA SHUHADA

Incomprensibilmente, là dove la grande via scende un po’, ricevendo la confluenza di un’altra, si forma una ressa. Il gruppo deve fermarsi. «Qui, proprio dietro l’angolo…» il militare di pattuglia è irremovibile. Mentre il suo più giovane compagno paffuto rimane indietro, con aria assente, l’altro è in mezzo a noi, di fronte al giovane che ci guida. «È proprio qui, non più di cinque metri…». Il militare non parla più, né si volge ad altri che lo interrogano o implorano, non allarga le braccia. Rimane immobile, non perde per un attimo con gli occhi quelli della nostra guida. Quasi sorride. Il giovane che ci guida desiste. «Ora che voi passate avanti, guardate subito a destra. Sulle scalette hanno ammazzato due diciottenni, che avevano preso la scorciatoia per l’università».

Poco prima, il giovane ci aveva parlato nel breve giardino di casa fra vecchi olivi, appena più in alto. Da un lato e dietro, a cinque metri s’innalzava una scarpata fino al primo piano. Dietro il filo spinato due ragazzini in kippah zappettavano per tutto il tempo lungo la rete. Sorvegliava un uomo in armi. D’un tratto, un plotone in assetto di guerra ha principiato le esercitazioni tra olivi, case, ragazzini dietro un pallone e mamme con figli in braccio. Il nostro ospite raccontava della fatica per entrare nella casa che aveva affittato. «Un giorno trovai qui, davanti la porta, un uomo che parlava con accento francese». Distende le braccia a pugno chiuso, per farci vedere. «Gridava. È mia!, diceva, me l’ha data Dio!» si cercò di calmarlo. «No! È scritto nella Bibbia!».

Che cosa può un povero contratto notarile, di fronte alla parola di dio? E sarebbe stato inutile chiedere in quale versetto si riscontrasse il suo nome.

E che vale dire che quella casa, quegli olivi, fin dalla loro origine erano stati dei padri del giovane che ci parlava? Che quella terra medesima da cinquecento anni o da due millenni mai avevano visto il francese o i suoi antenati? La parola di dio e dio medesimo non hanno, come gli uomini, tempo. Se avete altri argomenti, o miscredenti, portateli!

Lasciata la nostra guida, oltrepassata la confluenza della via, tutti i portoni in ferro sono saldati, inchiodati quelli di legno. Sulla sinistra, il muro che partiva dalle scalette si apre in una porta stretta. Senza battenti, è cucita da una matassa di filo spinato. Di là, pietre di tombe deserte.

Lungo la via, le finestre sono cieche o orbite vuote. Solo in rari casi, ci si dice, è possibile agli antichi abitanti entrare dal tetto, salendo dalla strada parallela. Sulle facciate silenziose strane gabbie di ferro oramai arrugginito chiudono terrazze e finestre. Incastrato in una di queste, un vecchio cartello sbilenco scritto a mano lascia ancora qualche brandello: apartheid.

BILI’N

Il sole invernale è già basso. La ghiaia dello stretto piazzale pare più calda. La madre, alta e austera, sorride appena con gli occhi. Uno dei figli, di mezza età, zoppica un poco. Per mesi e mesi gli abitanti del villaggio con i loro vicini hanno gridato a mani nude contro il muro che chiudeva agli abitanti campi e olivi. Uomini, donne, bambini e vecchi hanno sfidato con la sola voce bombe lacrimogene e assordanti, proiettili di gomma. Il figlio, che vedeva il pericolo per i bambini e le pecore già morte, fermi!, gridò alzando le braccia verso i soldati.

Ora una grande pietra incisa ricorda il suo nome in un piccolo parco della rimembranza, ricavato sulla scarpata della strada sterrata, in faccia all’alto muro che, spostato più in basso, protegge le case ancora fresche di calce della colonia. Accanto alla lapide, oggi, un virgulto d’olivo ricorda la giovanissima sorella. Nella foto appesa, sopra la bocca ferma, due occhi smarriti.

Qualcuno ci racconta del fratello zoppo. Fermato, con le mani alzate e il volto appoggiato all’autoblindo, gli si avvicinò un giovane militare, lo affiancò e gli sparò dritto nel piede.

Nel nostro gruppo l’uomo si muoveva allegro, scherzava con la madre, c’invitava a entrare. Ma il sole scendeva veloce. Il pullman era fermo sulla strada. La nostra guida più volte ci sollecitava.
«Jalla!».