Dalla sua apparizione per le affollate strade di Norimberga, il giorno di Pentecoste del 1828, Kaspar Hauser, come una cometa, «ha trascinato con sé milioni di pagine»: sono ricostruzioni pedanti, biografie più o meno fantasiose, indagini scientifiche, libelli contro la corruzione delle corti tedesche, documenti sulla vita del fanciullo selvaggio dalle origini oscure e dalle doti inusuali.
Quando venne «scoperto», Kaspar era un giovinetto che camminava a stento, conosceva poche parole e scriveva a malapena il suo nome. Aveva però una vivida percezione di suoni e colori, una memoria impressionante e un gran buon carattere, malgrado i lunghi anni trascorsi in una cella angusta e buia senza compagnia e senza istruzione: «La più pura innocenza e bontà si rivela in tutto ciò che fa o che dice, nonostante egli non abbia la minima idea di cosa sia giusto o errato, bene o male», scrive Anselm von Feuerbach, nel 1832, presentando nella sua appassionata ricostruzione il fanciullo come se fosse appena nato dal gesto del Creatore. Anche il primo maestro di Kaspar, l’insegnante di ginnasio Georg Friedrich Daumer, enfatizza questo tratto edenico: «La cosa assolutamente più stupefacente è che qui vi sia un essere senza passato, una creatura senza legami e senza obblighi come fosse il primo giorno della creazione, tutta anima, tutta istinto, dotato di immense potenzialità e non ancora sedotto dal serpente della conoscenza. Un testimone dell’esistenza di forze misteriose che sarà compito del prossimo secolo analizzare».
A differenza degli altri ragazzi selvatici apparsi in discreto numero in Germania e in Francia – Anna Maria Gennärt, Peter von Hameln, Eduard von Barra o Victor von Aveyron –, la figura di Hauser ha un fascino tutto particolare fatto di bontà e mistero che evoca immagini arcaiche di una umanità incontaminata. Anche le voci sulla sua origine contribuiscono alla fascinazione: si favoleggia che fosse l’erede legittimo di Carl Friedrich del Baden, figlio di suo nipote Carl e di Stephanie, la Beauharnais adottata da Napoleone, e si cercano i motivi del rapimento nelle trame di Luise Geyer, moglie morganatica del sovrano alla ricerca di un regno per la sua prole. Inoltre, a differenza di Peter o Victor, il trovatello di Norimberga studia e si lascia studiare divenendo il paradigma di infinite teorie in un’epoca che ancora crede nella scienza. E a tutti questi intrecci antropologici, etici, esoterici, medici, psicologici e politici vengono dedicati volumi suggestivi e ponderosi.
Sostenuto da questa spessa intelaiatura cartacea, Kaspar e la sua storia assumono la consistenza di un mito moderno, arrendevole alle trasformazioni e disponibile alla promiscuità. È lungo l’elenco delle contaminazioni: nel suo nome si celebrano le vestigia di Atlantide, si giustificano le teorie pedagogiche di cattedratici e sperimentatori, si indagherà il subconscio appena scoperto e tutte le suggestioni del mesmerismo. Comunque venga declinato, il «racconto» esercita una fascinazione possente sui tanti che in quegli anni di crisi si interrogano sull’essenza dell’uomo e del suo cosmo.
Anche quando si cheta il clamore attorno al wilder Mann con le sue implicazioni roussoviane e quel particolare intreccio tedesco e schellinghiano tra speculazione filosofica e ricerca scientifica, non viene meno la forza evocativa di questo caso. Sarà allora la letteratura a impossessarsi del trovatello. Anche se non mancano libri gotici, come Kaspar Hauser und die eingemeuerte Nonne. Wahrheit und Dichtung del 1834 per la penna di Ludwig Scoper (Georg Karl Ludwig Schöpfer) o racconti sentimentali, né, tanto meno, fanno difetto drammi movimentati, rivive con lui, tra intrighi cortesi, nostalgie Biedermeier, tristezze martirologiche e passione ermeneutica, la costellazione narrativa di Parsifal o di Simplicius Simplicissimus che, cresciuti lontano dal mondo, non perdono il loro candore e si trasformano in personaggi ostinatamente inattuali, specchio di un mondo «alla rovescia» che neppure l’eroe e il santo riescono a riordinare. E quando, nella seconda metà dell’Ottocento, si diffonde il desiderio di scampare alla modernità, Kaspar viene acconciato ad antagonista lirico e profetico della civilizzazione: «Nel grande deserto del nostro tempo, nel quale all’avvampare di passioni egoistiche i cuori sempre più si disseccano e si guastano, l’avere incontrato un uomo simile, è una delle esperienze più belle e indimenticabili della mia esistenza al declino», aveva scritto Feuerbach nel 1832 ricostruendo il suo «caso», senza rendersi probabilmente conto che Kaspar sarebbe diventato compagno di strada di molte altre esistenze sensibili al declino della poesia come delle vecchie tavole.
È, comunque, con il simbolismo che si assiste alla metamorfosi del personaggio da caso esemplare a strenuo oppositore del mondo del certo e dell’utile. Se con la sua breve vita non ha in realtà molto da offrire oltre la sua esistenza da «uomo in Paradiso prima del peccato originale», la rielaborazione poetica intreccia le metafore facendone il sodale di spiriti ribelli, modello di una ‘trasfigurazione di tutti i valori’ e, infine, il messaggero di un rinnovamento auspicato quanto radicale, senza che per questo il selvatico fanciullo perda la sua inettitudine per le cose del mondo.
È un percorso accidentato tra fenomeni di disagio esistenziale e sociale quello che fa di un göttliches Kind un kindlicher Gott e muta il giovinetto divino in un dio infantile adatto a tempi disorientati, quando lo spirito si chiude nelle stanze della psiche e si abbandona a cangianti utopie di redenzione. All’inizio c’è una indefinibile spiritualizzazione, poi un affastellamento di elementi biblici ed evangelici e infine una smaccata cristologizzazione che accomuna il povero giovane e il Salvatore in un affratellamento da perdenti.
Il romanzo di Jacob Wassermann (1873-1934), un autore di grande successo e sempre impudicamente attuale, nato in Germania ma radicato nella Vienna di Schnitzler, segue nel 1908 con entusiasmo (e con tutto lo psicologismo del fine secolo) la deriva salvifica di Kaspar, lo avvicina all’Idiota di Dostoevskij, ne fa l’alternativa alle corruzioni del mondo anticipando con narrazione avvincente tratti dell’inquietante protagonista della Torre di Hofmannsthal o le riflessioni buberiane nella rivista intitolata, e non è certo un caso, «Die Kreatur» dal 1926.
Caspar Hauser o l’inerzia del cuore (pp. 375, euro 22,00) viene riproposto ora dalla casa editrice Elliot nella traduzione di Lydia Magliano a oltre quaranta anni dall’ultima edizione, con una piacevolissima nota dell’autore che racconta, commenta, riflette sulla vicenda e sul suo romanzo.
Un romanzo tutto da leggere: non tralascia documenti, intrighi, vite purulente di cortigiani corrotti, da buon parvenu che guarda con disprezzo e desiderio la vita dei grandi, ma anche per lui al centro del racconto vi è l’innocenza di un fanciullo che si scontra con la realtà e alla fine soccombe nella testimonianza quasi cristologica di una umanità radicalmente pura. Con tutta la suspence di un poliziesco e l’attenzione ai dettagli tipica di uno scrittore di atmosfere, Wassermann compone così un romanzo estremamente ambizioso che vuole rappresentare «la tragedia innata nell’anima umana» scegliendo un calco evangelico, disperatamente senza trascendenza ma con tutta la forza poetica della testimonianza, per raccontare una vicenda che altrimenti rischiava di essere cancellata dalla Storia e dalla coscienza di un inizio secolo smarrito.