Quando il pop è colto è un piacere per le orecchie e per gli occhi. Jain (nome d’arte di Jeanne Louise Galice), giovane cantante francese vissuta a lungo in Africa, dimostra che ballare con divertimento e intelligenza è possibile. Nel videoclip del pezzo hit «Come», la ventiquattrenne meticcia (la madre viene dal Madagascar) si sdoppia in mille se stesse abbigliate con una sorta di divisa collegiale nera con colletto bianco, ha decine di braccia danzanti come la dea Kali, appare e scompare come Alice attraverso lo specchio.

Tromple-oeil umano su fondo tappezzeria fiorato, gioca con tutto: con i simboli del surrealismo magrittiano, mani che giocano a scacchi, una donna decapitata con la sua stessa testa sotto il braccio, un colpo sulla schiena di una Lei che diventa cinque figurine rotolanti come Rolling Stones. Escher e lenti deformanti e schermo virato a seconda della lente che copre la visione. I riferimenti sono espliciti, sfacciati, liberi come carte da gioco nelle mani di un mago da quattro soldi.
Un’architettura semplice bianca in mezzo al verde della campagna. Un’ombra, sei ragazze rovesciate sul selciato. Mentre una ragazza si siede sul divano la stessa ragazza vestita identica entra dietro se stessa in una porta. Da un fondale disegnato a fiori compare, aprendo le mani chiuse, il viso della bella cantante. Continua a cantare appoggiata ad un albero mentre poi da un interno la vediamo camminare per delle scale. Gioca a scacchi ad un lungo tavolo.

Passa un aereo, lei con la mano lo acchiappa dall’orizzonte interrompendone la scia, come fosse un areoplanino di carta, lo trattiene un attimo, poi lo rilancia nel cielo libero. Accende un timer, balla con quattro braccia come un mostro poliposo. Una delle se stesse sta di fronte a un cavalletto da pittore e sta ritraendo un’altra se stessa che posa. La partita a scacchi si fa agguerrita. Muove il cavallo. Nell’aria salta e si triplica. Indossando occhiali tre di lei sono sdraiate a riposare al sole. Una mano poggia una tazza enorme accanto ad una gigantesca moka e due contenitori di zucchero e cioccolata extralarge: saltando nel centro finisce nella tazza – splash! – lasciando fuoriuscire un po’ di caffè, un tuffo a bomba in una piscina di liquido nero bollente.

Gioca a nascondino con se stessa, le mani sugli occhi, dietro la prima l’altra se stessa apre una cerniera lampo che disegna uno squarcio nel paesaggio, ci si infila richiedendola dietro di sé così che l’altra non la scovi. Il mondo è alla rovescia, seduta sul pavimento che però è cielo, in una piscina bucata cammina sul bordo del baratro. Due braccia disegnano come un compasso un cerchio intorno al suo corpo diventando moltitudine. Ragazze scendono le scale, sono tutte e tre appoggiate ad un albero, una ammicca guardando in macchina. Correndo tra filari le ragazze si moltiplicano da dietro il tronco, ne arriva una, un’altra e un’altra ancora. La testa sottobraccio, come un casco tolto e lasciato lì, senza bisogno di usarlo.

Le tre se stesse in relax sorseggiano un drink: quando una si alza gli occhiali vede con le lenti dell’altra: colorato, distorto, virato seppia. Verso il finale tutte cantano il ritornello guardando in macchina: le giocatrici di scacchi, le saltatrici, la tappezzata, la pittrice e la modella, le ragazze che giocano a nascondino cominciano a sparire tutte: nella stanza piena di palloncini blu le ragazze svaniscono, i palloncini anche, fino a quando Lei lascia andare l’ultimo. La testa senza corpo rotola per terra come un dado usato: fine.
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