«All’inizio le sceneggiature sono uno scheletro non il film. Mi piace andare avanti un po’ alla volta con la musica, col montaggio, come fa un pittore che parte dalla materia, dai colori; ho in mente delle inquadrature precise, e al tempo stesso rimango aperto alla sensibilità». Raccontava così il suo fare-cinema Jacques Rozier, tra i protagonisti della Nouvelle Vague anche se con soli cinque lungometraggi in quasi cinquant’anni di carriera. Forse perché sognava di fare un cinema popolare e invece i suoi film avevano incontrato il gusto di pubblici molto ristretti, e ogni volta era una nuova scommessa. Nei suoi universi fantastici, Rozier era accanto ai propri personaggi, impiegati, attori di cabaret, sognatori maldestri, stralunati. In fondo da qualche parte dovevano un po’ somigliargli in quei movimenti che oltre i film racchiudono un arcipelago di progetti, e affermano una libertà irriverente che a ogni viaggio fa cadere le maschere, rovescia l’ordine prestabilito, dichiara la sua inadeguatezza e il gusto di un gioco infantile.

Una scena da «Adieu Philippine» (1962)

NATO a Parigi nel 1926, Rozier dopo l’Idhec la scuola di cinema parigina (oggi Femis) era arrivato sul set come assistente di Renoir per French Cancan (1954) – un’esperienza che definirà «il miglior tirocinio che mai si può immaginare». Più o meno nella stesso periodo realizza i suoi primi corti, Rentrée des classes, la storia di un ragazzino che butta nel fiume la borsa di scuola, e Blue jeans (1957), con cui partecipa al festival dei cortometraggi di Tours dove conosce Godard. Quest’ultimo scrivendo su «Arts» aveva definito il film di Rozier l’opera «più nuova» al festival, e dopo il successo di Fino all’ultimo respiro gli farà conoscere il suo produttore, Georges de Beauregard. È qui che inizia Adieu Philippine, il folgorante esordio, di Rozier nel 1962, che Truffaut definì «l’essenza stessa della Nouvelle Vague». Scriveva: «C’è qualcosa di geniale nel modo in cui Rozier crea un equilibrio tra gli avvenimenti in apparenza insignificanti che filma, e la densità del reale che gli conferisce l’importanza con cui ci affascinano». Le riprese furono difficili, Rozier all’inizio voleva fare appunto un film sulle prime settimane di un ragazzo francese mandato a combattere in Algeria. Vista l’impossibilità aveva deciso che avrebbe raccontato i giorni i prima della sua partenza. Il protagonista, Michel (Jean-Claude Aimini) lavora in uno studio televisivo, conosce due ragazze, le «Philippine» inseparabili del titolo, Liliane (Yveline Céry) e Juliette (Stefania Sabatini) che lo seguono in Corsica al mare. Gli attori sono non professionisti, molti luoghi si rivelano di difficile accesso, Rozier lavora improvvisando, un parte dei dialoghi vanno perduti, il produttore abbandona il film e soltanto grazie al sostegno di alcuni amici riesce a finirlo e a presentarlo alla Semaine de la critique di Cannes dove sarà Godard a presentarlo paragonando Rozier ai grandi poeti come Flaherty o Rouch.
Tutto questo è però la sua cifra e il suo fascino, un’invenzione in cui si mescolano liberamente il gusto del genere (la commedia soprattutto), il lavoro con gli attori, la leggerezza e un’allegria che scoprono un orizzonte malinconico.

È L’ENERGIA che inizia tra i giochi di seduzione dei tre ragazzi sulla spiaggia e soffia nella vivacità dell’estate che continua film dopo film: Du côté d’Orouët (1969) in cui tre ragazze si divertono a provocare un funzionario in una residenza di vacanze; Les Naufragés de l’île de la Tortue (1976) dove due impiegati di un’agenzia di viaggi sono alle prese con un nuovo concetto turistico, le vacanze «alla Robinson Crusoe», meta per dei borghesi annoiati in cerca di emozioni anti-Club Med – nel cast c’è l’attore Pierre Richard allora star comica oltralpe.
Gli anni Ottanta sono quelli di Maine Océan, confronto di classe e di lingue, con una danzatrice afrobrasiliana (Rosa Gomes) che viaggia in prima per errore, due marinai che le chiedono un biglietto, un avvocato poliglotta che parla una lingua incomprensibile, e via via altre figure a comporre una strana comunità di incontri casuali sull’Atlantico.
Nel 2001 arriva Fifi Martingale, un’ode al teatro, presentato alla Mostra di Venezia e mai uscito in sala, come i suoi tanti progetti rimasti irrealizzati. Ma diceva spesso questo autore fuoriclasse: «Il cinema è rischio e desiderio. Come l’amore».