Pensare l’emancipazione a partire dalle condizioni del sensibile, pensare la politica a partire dalle cornici del visibile, dallo statuto delle competenze e delle parole assegnate sono alcune delle «non lezioni» del filosofo francese Jacques Rancière. Una ricerca filosofica, quella di Rancière, che parte dall’uguaglianza, dalle intelligenze anzitutto, e che declina questa parola nelle relazioni tra dimensione estetica e politica, tra realtà finzione, tra spettacolo e spettatore. Nelle condizioni del fare, dell’agire e del percepire alle quali siamo assegnati, la cui critica è premessa di un’arte dell’emancipazione. È a questo intreccio che sono dedicati i due incontri con Jacques Rancière promossi dall’Institut Français Italia al Gabinetto Vieusseux di Palazzo Strozzi a Firenze (29 giugno ore 17) e al Festival del Cinema Ritrovato organizzato dalla Cineteca di Bologna (1 luglio, ore 18.30 Auditorium). Ne discutiamo con il filosofo prima del suo arrivo in Italia.

Da un paio di decenni lei dedica le sue ricerche a ripensare i rapporti tra estetica e politic e lo ha fatto anche, se non anzitutto, attraverso una netta presa di distanza da un certo pensiero critico del Novecento (Benjamin, Brecht, Adorno). Che cosa la disturba in queste tradizioni critiche? 

Rousseau denunciava il paradosso di quei drammaturgi che avevano la pretesa di rendere la gente virtuosa facendoli godere dello spettacolo di gente viziosa. Quando Barthes dice che «nel vedere Madre Coraggio cieca, vediamo ciò che lei non vede» continua a essere prigioniero di questo paradosso. L’arte critica ha bisogno di presupporre l’ignoranza per supporre che l’arte sia produttrice di conoscenza, dunque di azione. Debord denuncia questa falsa conseguenza: «In un mondo davvero rovesciato, il vero è un momento del falso». Ma deve a sua volta presupporre la passività dello spettatore. Ritengo del resto che Benjamin sopravvaluti le conseguenze della tecnica e che trascuri le condizioni che rendono le arti meccaniche percepibili in quanto arti; ritengo che la rigidità dell’opposizione di Adorno tra arte e industria culturale produca una visione estremamente limitata e in ultima istanza falsa delle trasformazioni estetiche di quello che è stato il suo secolo. Ho ammirazione per questi pensatori e questi artisti. Ma occorre ricollocare le loro interpretazioni del divenire dell’arte e delle relazioni tra arte e politica all’interno della storia ben più complessa del regime estetico dell’arte e dello statuto contraddittorio che questo regime conferisce all’arte come ambito separato, nel quale può comunque entrare qualunque cosa, e come forma di esperienza specifica che porta allo stesso tempo la promessa di un’altra vita comune.

Il suo modo di rileggere i rapporti tra estetica e politica ci sembra implicare una duplice operazione: da un lato, evitare che i due campi collassino l’uno sull’altro, ma, d’altro lato, mostrare la loro stretta connessione. Lei parla di una estetica della politica, che non si riduce all’estetizzazione o alla spettacolarizzazione della comunicazione del potere, ma riguarda il modo in cui gli atti politici ridefiniscono il visibile e il dicibile. In che cosa consiste questa estetica della politica?

La mia riflessione sulla politica scaturisce dal mio lavoro sull’emancipazione operaia nel XIX secolo. Lavoro che mi ha consentito di guardare all’emancipazione operaia come a una questione estetica, in un senso molto preciso: un altro modo di abitare il mondo, di far uso delle proprie braccia, del proprio sguardo e della propria voce, di relazionarsi al tempo del lavoro o allo spazio della città. Questa ricerca mi ha fatto capire quale fosse la posta in gioco per Platone, quando escludeva dalla politica gli artigiani «perché il lavoro non può aspettare», o per Aristotele, quando distingueva la parola umana, destinata alla giustizia, della voce destinata all’espressione animale del piacere e della pena. La politica si gioca in questo luogo, sulle compartimentazioni di uno spazio e di un tempo del comune, sulle cose che lì sono visibili, sui soggetti che lì vengono riconosciuti capaci: una divisione tanto simbolica quanto interamente materiale. «Il potere è nelle strade» si diceva nel ’68, opponendo gli spazi conquistati delle università e delle fabbriche ai luoghi in cui il potere di tutti era recintato e privatizzato. I movimenti degli ultimi anni – primavere arabe, Indignados, Occupy, Gezi Park e non solo – hanno illuminato quel lavoro estetico che è la costruzione di un altro mondo comune.

D’altra parte, in diversi suoi lavori recenti, si è impegnato a precisare i contorni di una politica dell’estetica, sia per quanto concerne la letteratura, sia in rapporto alla circolazione delle immagini, alla fotografia e al cinema. In cosa consiste la politica dell’estetica? E si può affermare che ogni politica dell’arte, in quanto riconfigurazione del sensibile, sia per sua natura dissensuale? 

Non si tratta di attribuire all’arte in generale o alla creazione un valore sovversivo. Più semplicemente, nelle nostre società esiste un ambito dell’arte in cui le parole, le immagini, i gesti, le combinazione tra azioni, che del resto costituiscono la forma e la materia della politica, del giornalismo o del consumo di merce, vengono a trovarsi spiazzati e rilavorati da operazioni specifiche che riconfigurano le forme della loro visibilità e della loro significazione. C’è stato un tempo in cui gli artisti hanno voluto cambiare la vita ridisegnando gli ambienti della vita quotidiana. Ce n’è stato un altro in cui hanno inteso mostrarci la macchina capitalistica o la guerra imperialista dietro le apparenze dell’arte o la routine della vita quotidiana. Oggi tendono piuttosto a restituire materialità sensibile a ciò che si dissolve nelle forme consensuali della comunicazione e a restituire visibilità a un’intera storia conflittuale che il discorso ufficiale dichiara abolita.

Da qualche tempo l’arte contemporanea sembra tornare alla politica: l’ultima Biennale di Venezia di Enwezor con la lettura integrale del Capitale di Marx, i video delle primavere arabe che sbarcano nei musei come opere d’arte… Cosa pensa di questa svolta politica dell’arte? Si tratta di un esempio di ciò che per Lei è la «politica dell’estetica»? 

Più che a un ritorno della politica nell’arte, credo che assistiamo a uno spostamento. Se il Capitale viene presentato alla Biennale non è in quanto teoria che fonda o denuncia le pratiche dell’arte, ma come oggetto di una performance artistica: leggere il Capitale diventa un atto del tutto materiale e non una procedura di svelamento. Hans Haacke non svela la realtà del mercato dietro la superficie delle opere, ma propone ai visitatori una sorta di sondaggio sulla loro visione del mondo; Jeremy Deller fa risentire i rumori del lavoro… La politica dell’arte oggi tende piuttosto a ripopolare il mondo, anziché disvelare ciò che sta sotto le cose o quali sono le molle della macchina.

Da qualche tempo sembra che la cultura filosofica europea, in reazione forse alle fantasmagorie postmoderne, sia percorsa da una «svolta realistica». Lei sembra invece restare fedele a una certa impostazione costruttivista. Nello Spettatore emancipato, ad esempio, scrive che «il reale è sempre l’oggetto di una finzione» e che «è solo la finzione dominante a negare il proprio carattere di finzione». La «svolta realistica» è anche una svolta politica? È una sorta di ritorno all’ordine?

Vi sono più forme di reale. C’è il reale saturato imposto dalla visione dominante del mondo che identifica la logica capitalistica e statale alla mera gestione di una necessità insuperabile. C’è il reale lacunoso che viene tessuto dalle azioni e dai pensieri impegnati a rifiutare questa stessa necessità. C’è il reale che ci coglie di sorpresa e stravolge le costruzioni degli uni e degli altri. Il problema è quello di pensare il rapporto tra questi due reali. Ma gli appelli a ritrovare il «reale perduto» tendono a confonderli con un po’ troppa facilità, identificando la conquista del reale con la demistificazione platonico-marxista dell’apparenza. Lasciare al reale la sua quota di sorpresa significa anche accettare che il reale prodotto dalle nostre azioni e i nostri pensieri sia a sua volta un modo di produrre altre apparenze.

Nel suo libro-intervista con Laurent Jeanpierre e Dork Zabunyan Lei spiega di non arrivare al cinema passando per un itinerario erudito o per la storia dell’arte, ma per «un blocco polemico»: come il cinema ha nutrito il suo pensiero? Cos’è per Lei la critica cinematografica? 

Il cinema ha nutrito il mio pensiero spostando categorie e opposizioni considerate evidenti: arte colta e divertimenti popolari, o persino arte e industria. Ha arricchito le capacità di vedere e di percepire di un pubblico vastissimo, ma allo stesso tempo ci ha fatto sentire, più di qualunque altra arte, che la democratizzazione delle sensazioni e la trasformazione politica delle percezioni del mondo erano in stretta relazione o in risonanza, e non in una relazione di causa ed effetto. La critica cinematografica può allora diventare un modo per mettere in evidenza questa vicinanza e queste risonanze, di rendere esplicito i nuovi modi di comporre un mondo sensibile che le opere tracciano nella loro stessa singolarità.

Tra la pubblicazione del suo libro «La notte dei proletari» e quella di Aisthesis passano oltre tre decenni e una stessa domanda sembra tornare: quella di un’arte dei poveri, di un’arte di vivere e di un’arte al di là dell’arte. Qual è la relazione tra arte ed emancipazione popolare?

All’epoca della Rivoluzione Francese, Schiller vedeva nella capacità di godere dell’apparenza una capacità umana condivisa da tutti e suscettibile di fondare un’arte di vivere in società che annullava la separazione tra uomini del bisogno e uomini della cultura. All’epoca della Rivoluzione del 1848, Baudelaire salutava nelle parole della Canzone degli operai l’espressione di una capacità degli spossessati di godere di quelle forme dell’esperienza sensibile che erano loro negate. Ciò che attiene all’emancipazione non è l’arte in generale, bensì l’esperienza estetica come rovesciamento delle cornici normali dell’esperienza, come capacità di vivere altre forme di esperienza sensibile, diverse da quelle alle quali eravamo destinati.