Secondo Jacques Rancière, il tempo del paesaggio si genera come eterocronia contraddittoria all’interno di una congiuntura storica densa: ne definiscono i contorni la nascita dell’estetica come scienza del bello, la rivoluzione francese e lo sviluppo di una politica parlamentare di recinzione delle terre comuni in Inghilterra (il primo Inclosure act è del 1773 e precede la grande legislazione ottocentesca).
Le temps du Paysage. Aux origines de la révolution esthétique, appena dato alle stampe dalle edizioni La Fabrique (pp. 135, euro 14), parte da un presupposto: «il paesaggio è il riflesso dell’ordine sociale. L’ordine sociale può essere descritto come un paesaggio. La Natura ispira entrambi». Nel comune riferimento legittimante alla Natura, dunque, Genius Loci e Spirito delle leggi diventano l’uno metafora dell’altro. Questo carattere della cultura protoromantica si costruisce, secondo Rancière, lungo un intenso dibattito che riguarda l’arte dei giardini, collocata da Kant tra le arti dell’apparenza sensibile, come sotto categoria della pittura. «La natura dei giardini è l’imitazione della maniera in cui la pittura imita la natura»: doppio artificio dunque, nulla di naturale, ma una copia della copia di una copia. La confusione oggi imperante tra termini affatto diversi come natura, paesaggio, giardino, ambiente, territorio, ha dunque la sua origine in questo frangente storico-culturale.

TUTTAVIA il riconoscimento dell’arte dei giardini come parte delle Belle Arti non ha nulla di pacifico. Si genera infatti un doppio, poderoso contraccolpo tanto sul piano culturale quanto sul piano politico. Attraverso la controversia sulle differenze tra bello, pittoresco, grandioso e sublime si scardina l’estetica classica e si determina l’emergenza dell’idea contemporanea di arte: non più imitazione della natura «come causa (necessaria) e come effetto (libero)» ma «educazione dello sguardo», libera potenza capace di attivare una immaginazione in grado di ridefinire le linee di partage che demarcano l’universo della sensibilità e le strutture sociali.

MENTRE L’ISCRIZIONE sociale e politica di un tale dibattito mette in mostra una linea di tensione maggiore, della quale l’arte è un riflesso rovesciato, tra i difensori dell’uso ancestrale dei commons, legati a «un ordine sociale non perturbato dalle divisioni artificiali della proprietà» e la classe emergente dei nuovi possidenti, per i quali «la linea serpentina non è altro che l’arte dell’ornamentazione delle proprietà» recentemente espropriate ai contadini poveri e alla chiesa.

DI QUESTA FACCENDA Rancière intende costruire una genealogia, sottolineandone conflitti e aporie. Andiamo con ordine. Nel 1770 Thomas Whately dà alle stampe le sue Osservazioni sul Giardinaggio Moderno. L’idea classica di natura è, in questo testo, completamente abbandonata, e vi primeggia una estetica dell’«evocazione agreste», libera dalle «catene della regolarità». Secondo Wathely, la simmetria e l’angolo retto che governano l’arte dei giardini alla francese, sono il riflesso di «un’antinatura segnata dall’assolutismo monarchico» di cui Versailles è il simbolo. A un tale modello si oppone dunque il giardino all’inglese, le cui curve naturali ricordano il «corpo femminile», esatto opposto del «corpo che norma: il corpo-architettura di Vitruvio». Contro il geometrismo cartesiano Whately esalta le virtù della vastness, dell’intricacy e del curvilineo, che producono quel «paesaggio sociale di gradazioni insensibili» compatibile con le «forme di governo di una monarchia liberale fondata sulla tradizione e sull’accoglimento empirico delle sole novità che preservano le antiche virtù». Varietà, intreccio, coesistenza significano qui differenza di classe e di ceto, ma anche un governo capace di compromessi pragmatici, tranne, evidentemente, sulla proprietà e sulla tradizione.

LO STESSO TEMA sarà ripreso vent’anni dopo da Edmund Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese: «egli – scrive Rancière – denuncia i legislatori francesi che, come i decoratori dei loro giardini, livellano ogni differenza». I «fanatici dei diritti astratti e dei giardini rettilinei» costruiti dalle leggi rivoluzionarie minacciano insomma la naturale armonia sociale, fondata sul privilegio di pochi – quella stessa struttura sociale che invece il paesaggio inglese, pittoresco e ricco di variazioni, custodisce ancora. L’uguaglianza è livellamento, secondo Burke, distruzione delle differenze naturali. E giustamente Rancière ricorda a questo punto che «levellers era il nome dei contadini del Midland, insorti nel 1607 per opporsi alle enclosures», lo stesso nome che, durante la rivoluzione inglese era stato rivendicato dalla frangia radicale riunitasi, contro Cromwell, attorno a John Wildman, il cui manifesto intitolato An agreement of the people of England (1647-1649) proclamava l’abolizione di ogni privilegio, di ceto, nascita o posizione sociale.

SARANNO PERÒ Richard Payne Knight e Uvedale Price a capovolgere la linea Whately-Burke, denunciando l’omogeneità del giardino all’inglese dalle linee pittoresche: «se l’ordine geometrico rifletteva la vanità dei principi, i sentieri sinuosi traducono l’orgoglio dei proprietari che trattano il paesaggio come un loro possesso». Il governo liberale e temperato degli inglesi avrebbe dovuto proteggere «l’armoniosa gradualità» delle condizioni sociali contro la follia livellatrice dei rivoluzionari francesi. Ma in realtà, nota Rancière, la potenza pubblica fa il contrario mettendosi al servizio dell’accumulazione capitalista: le strategie pittoresche «sopprimono i punti di incontro e gli spazi aperti a tutti» al fine di separare il territorio dei ricchi dalle abitazioni e dalle condizioni d’esistenza di una popolazione che si tende a costringere nella povertà. Così l’arte dei giardini diventa «un’arte dell’uso avvertito della proprietà». Tuttavia questa storia resta attraversata dal suo doppio fantasmatico e inquietante: nel frattempo l’arte ha distrutto le barriere del canone rappresentativo ed è ormai libera di produrre diversi sguardi sul mondo. Mentre contro le ipocrisie del pittoresco resta forte la voce di William Wordsworth, che del paesaggio cantava la natura comune.