Jacques Rancière è stato l’intellettuale che, forse con più costanza, ha saputo far valere il suo punto di vista critico sul ciclo recente della vita politica francese. Bene ha fatto dunque Eric Hazan a proporgli una conversazione «sul tempo in cui viviamo», nel libro recentemente uscito in Francia En quel temps vivons-nous? (La Fabbrique editions, Paris, pp.72, euro 10).
Il ragionamento di Rancière è, come sempre, essenziale: «coloro che ci hanno chiesto di votare Hollande perché era meno peggio di Sarkozy, ci invitano a votare Macron perché è meno peggio di Fillon o Marine Le Pen e, tra cinque anni, ci inviteranno a votare Marine Le Pen perché è meno peggio che sua nipote». Come interrompere, dunque, questa sequenza catastrofica?

IL DIALOGO tra Hazan e Rancière prende la forma di un bilancio dei movimenti sociali di questi ultimi anni. Inutile, d’altronde, cercare altrove. Sono lotte diffuse che Rancière osserva con sguardo inclusivo: dalle manifestazioni contro la riforma del lavoro ai cortei di denuncia della violenza poliziesca, dalle mille associazioni che si occupano di accoglienza dei migranti alle tante occupazioni o a Nuit Debout. Un insieme di esperienze, certo frammentate, ma capaci – più che di prefigurare qualche avvenire – di «scavare un buco nel presente» per «intensificare un’altra maniera di essere e di percepire» l’ordine del mondo.
Si tratta insomma di prime forme di «auto-organizzazione della vita» che cominciano a definire un passaggio importante «dalla rassegnazione alla protesta». Tuttavia, inutile nasconderlo, nessuna di queste azioni, fin qui, è riuscita a condensare una alternativa politica efficace.

IL PROBLEMA, secondo Rancière, è che le pratiche antagoniste sono ancora preda della vecchia illusione della «sinistra radicale», secondo la quale la «decomposizione» del sistema politico-rappresentativo aprirebbe di per sé la strada alla rivolta sociale. Mentre è proprio il contrario quello che accade: i sistemi di rappresentanza, dice il filosofo, tengono botta e «trovano sempre il modo di arrangiarsi con le anomalie e i mostri che secernono». Da una parte la mediocrità crescente delle contese elettorali si rovescia in «principio di rassegnazione alla loro necessità»; e dall’altra i meccanismi elettorali «creano essi stessi lo spazio di coloro che pretendono di rappresentare i non rappresentati».
UNA RISPOSTA RADICALE a questa condizione storica deve allora ripartire da esperimenti capaci di rompere definitivamente con tutte le previsioni catastrofistiche: «le sconfitte della democrazia» dice Rancière non aprono la strada «alla lotta finale», sono solo «sconfitte dell’uguaglianza». Di più: esse pesano. Hanno un costo sociale altissimo. Producono effetti politici. Perciò «la battaglia sulle istituzioni e le procedure della politica» è tutto fuorché puramente illusoria: «le apparenze», nel tempo che viviamo, «sono solide».

Lo spettatore emancipato che Rancière ambisce ad essere ci ha abituato da anni a queste analisi. Si tratta allora di fare un passo oltre. Senza retorica né supponenza il filosofo analizza, quindi, i due paradigmi più diffusi nel dibattito di movimento: quello populista e statalista della sinistra cosiddetta radicale e quello insurrezionalista, di cui Hazan e la sua casa editrice sono latori, avendo pubblicato diversi sermoni del Comité Invisible.
Contro il populismo di sinistra l’argomento è secco: si tratta di una deriva reazionaria fondata, oltreché su una abbondante dose di opportunismo, su una immagine falsa del popolo. Nella tradizione moderna, infatti, il popolo non è «il grande corpo collettivo che si esprime nella rappresentanza». Piuttosto è quel «quasi-corpo che viene prodotto dal funzionamento del sistema». Sono i sistemi di rappresentanza che operano dunque il partage tra rappresentati e non rappresentati, la tutela di alcuni interessi e la collera sociale, le identità culturali e l’esodo moltitudinario. Una vera e propria fabbrica in cui la politica si traduce in polizia definendo lo spazio del quale il cosiddetto popolo è un risultato tutt’altro che neutro. Più articolata è invece la critica sul secondo fronte, quello dei nuovi insurrezionalisti.

DICE RANCIÈRE: «c’è una cosa che Badiou, Zizek o il Comité Invisible condividono con Finkelkraut, Houellebecq o Sloterdijk, ovvero questa descrizione banale del nichilismo del mondo contemporaneo, tutto piegato al servizio dei consumi e all’incanto democratico del narcisismo mercantile». Al di là delle evidenti differenze, insomma, permane sullo sfondo una «visione heideggeriana» del mondo, unilateralmente «decadente», che lascia inermi, e impotenti. Che poi questa analisi venga da alcuni rovesciata in un astratto appello all’insurrezione oppure, dopo aver constatato che il promesso Grand Soir non si è realizzato, introvertita in forme di vita sottrattive, conta poco.

A tenere insieme queste prospettive è una vecchissima e inutile metafisica del potere. Ma obietta Rancière, il capitalismo contemporaneo non coincide con «il potere»: piuttosto esso è «un mondo, il mondo in cui viviamo, l’aria che respiriamo, la tela che ci tiene insieme». Ciò significa che non esiste alcun «luogo centrale», alcuna «muraglia da abbattere», alcun «faccia-a-faccia» nel quale schierarsi, piuttosto un sistema di rapporti che mentre produce miseria, razzismo e guerra, permette di vivere a milioni di persone invadendo progressivamente l’esistenza delle singolarità. Si tratta allora di costruire lotte capaci di aggredire «le differenti forme secondo le quali la logica capitalista ha bisogno dei nostri corpi e dei nostri pensieri».

D’ALTRA PARTE, continua Rancière, «tutti coloro che parlano oggi d’insurrezione fanno una croce sulla storia reale dei processi insurrezionali». Tutti i grandi momenti insurrezionali, infatti, sono stati caratterizzati da una «straordinaria invenzione di istituzioni». Un’insurrezione consiste soprattutto in questo paziente lavoro di «rielaborazione della percezione e del pensiero» che produce «immaginazione politica» per «cambiare il mondo».
Questo è mancato fin qui ai movimenti. Certo non è un destino, e tuttavia qui il testo si ferma. Rancière si limita ad osservare e rivendica una posizione che si potrebbe definire puramente anarchica. Ragionata, elegante, persino poetica: pronta a segnalare ogni momento in cui l’eguaglianza si manifesta, rompendo, anche solo per un istante le strategie di dominio dei governi.