La decostruzione della Logica del vivente di François Jacob, che costituisce il tema portante del seminario tenuto da Derrida fra il 1975 e l’anno successivo con il titolo La vita la morte, e che ora Jaca Book ripubblica (a cura di Francesco Vitale, pp. 352, euro 32,00) acquisisce una rilevanza speciale nel momento in cui la crescita della intelligenza artificiale pone il problema di macchine che diventino umane e magari smaniose di potere. Se al posto di «crescita» avessi scritto «sviluppo» sarebbe cambiato qualcosa? Si sarebbe superata la metafora organicista proiettata su un meccanismo?

Avendo a che fare con sistemi che si auto-istruiscono, accrescendo le proprie risorse proprio come farebbe un organismo, sia l’intelligenza artificiale, i termini «crescita» o «sviluppo» si attagliano perfettamente. Inversamente, se parliamo del vivente lasciando da parte tutto l’apparato finalistico con cui solitamente si confronta, con cattiva coscienza, la biologia, cambierebbe qualcosa? Anche qui, nulla è meno certo, e lo dimostra Derrida facendo notare che l’idea di Jacob di far ricorso a termini come «codice» e «struttura» per definire le proprietà del vivente non gli evita di parlarne in termini finalistici, per esempio con un massiccio ricorso a un preteso carattere essenziale del vivente, ossia la riproduzione.

Considerazioni attuali
Ogni vivente, osserva Jacob, ha per fine la continuazione della vita. Dunque, possiede una finalità esterna e potentissima, una teleologia aristotelica per cui il singolo vive in funzione della specie e della sua continuazione. Tuttavia, se c’è una cosa che le macchine, oggi, fanno benissimo è realizzare copie perfette di sé stesse: chi ha trasferito tutti i dati e le app del proprio telefonino in un altro apparecchio sa quale sia l’efficienza di questa riproduzione che si risparmia lo svezzamento, l’educazione, i conflitti generazionali. Si aggiunga poi che, diversamente da quanto avveniva ai tempi di Kant, il Newton capace di spiegare la crescita di un filo d’erba la biologia lo ha scoperto da decenni: è il Dna nella versione formulata da Watson, Crick e Wilkins, grandi ispiratori dell’insistenza di Jacob sul «codice» e il «programma» che assimilano il meccanismo e l’organismo. Quest’ultimo condivide dunque con il meccanismo tanto la crescita quanto la riproduzione. Sono davvero differenti o dobbiamo aspettarci un Golem che comanderà gli alchimisti cui deve la propria fabbricazione?

Una differenza resta, ed è enorme e insuperabile. Quale? In un’epoca in cui anche filosofi naturalisti come John Searle invocavano una specie di impalpabile virtus cogitativa per tracciare la distinzione tra intelligenza artificiale e intelligenza naturale, dichiarando che l’intelligenza naturale non si limita a manipolare segni, ma fa qualcosa di più (che Searle si guarda bene dallo specificare) Derrida mostra il suo genio visionario cogliendo il punto. La specificità della intelligenza naturale non sta in ciò tradizionalmente si attribuisce alla mente che, come sapeva Platone, funziona né più né meno come l’intelligenza artificiale, rappresentata ai suoi tempi dalle tavolette scrittorie di cera; sta invece nel corpo, dominato dalle esigenze metaboliche e dunque capace di sentimenti, noia, speranza, temporalità, bisogni e destinato alla finalità ultima, insensata e irrimediabile della morte.

Quindi, diversamente dagli automi, che manifestano una evidente teleologia esterna, ossia sono mezzi per dei fini, ogni vivente, come ci ha insegnato Kant, possiede una teleologia interna, ossia non ha altro fine che sé stesso. E visto che questa finalità interna si risolve immancabilmente con la morte si può dire, con Nietzsche, che il vivo non è che una specie del morto, e una specie molto rara.

Fin qui Derrida e la tradizione che mobilita. Proviamo, con il senno di poi, a trarne le conclusioni nel momento in cui l’intelligenza artificiale si rivela per quello che è, una macchina per catturare attraverso telefonini, smartwatch, visori 3D insopportabili e adesso con Meta, forse meno invasiva e ingombrante, i modi di vivere degli umani, i loro sguardi, i loro impulsi, i loro assurdi, e replicarli in forma automatica.

Proprio questo essere per la fine è ciò che i computer non hanno, ed è ciò che ha spinto sin dall’inizio il primo umano a servirsi di un antenato del computer, che fosse un bastone da scavo, una tavoletta scrittoria, un libro o una bicicletta, imponendogli una finalità esterna potentissima ed esplicita: il bastone è fatto per scavare, la tavoletta per essere scritta, il libro per essere letto e la bicicletta per rimediare alle deficienze motorie derivanti dall’adozione della stazione eretta. Saranno questi supplementi tecnici che, determinando la nostra forma di vita, determineranno le specificità dell’intelligenza naturale degli umani differenziandola da quella di altri organismi: i delfini sono con ogni probabilità più «naturalmente intelligenti» degli umani, ma non disponendo di mani e stando in acqua non possono potenziare tecnicamente la loro intelligenza attraverso biblioteche, banche o manifestazioni per la tutela del clima.

Quel che non possono
Di qui, una netta distinzione tra ciò che i computer possono o non possono fare: possono pensare, e lo fanno molto più rapidamente ed efficientemente degli umani; e possono produrre, in modo preciso, infaticabile e paziente, gran parte di ciò che gli umani fabbricano, di solito di mala voglia e talvolta in condizioni indegne di un umano. Non possono, però, morire, ossia avere una finalità interna che detta le urgenze e le ragioni per pensare, e prima ancora per produrre strumenti. Proprio per questo, non possono consumare, visto che il bisogno che un organismo ha del nutrimento è ben diverso da quello che un meccanismo può avere delle fonti di energia, perché una macchina senza energia si ferma ma può sempre ripartire, mentre un organismo senza energia si ferma per sempre.

Infine, diversamente dagli organismi umani, i computer non possono servirsi di apparecchi tecnici, giacché li incorporano: una macchina fotografica elettronica non si serve del computer come farebbe un umano; lo incorpora, e lo fa per rispondere non ai propri bisogni, ma a quelli dell’umano che la adopera.
È dunque proprio per emulare i bisogni e i fini degli umani, non per pensare meglio di loro (per farlo ci vuole molto di meno, un abaco o una matita sono più che sufficienti) che le piattaforme cercano di intercettare quanti più dati possibili, e in particolare quei dati fisiologici come il battito del polso, i movimenti dello sguardo, le preferenze e le intolleranze, di cui i computer non hanno idea. Cercano, insomma, quella specializzazione della morte così rara e pregiata che è la vita, e in particolare la vita sistematicamente connessa con la tecnologia.

Consumare ci rende unici
Dopo aver deposti tutti i loro averi i romani chiesero a Brenno cosa restasse loro questi rispose ironicamente «la vita»; un Brenno aggiornato avrebbe preso la vita è lasciato tutto il resto, perché nulla vale più della vita e del suo correlato necessario, la morte, nel mondo dell’automazione, che è un immane apparato di mezzi (di finalità esterne) senza altro fine se non i bisogni di un organismo, l’umano, il cui unico e insuperabile fine la è la propria fine, e dunque determina il senso, il valore e l’utilità di ogni apparato tecnico, dal filo per tagliare il burro alle piattaforme.

Ed è proprio partendo da questa consapevolezza che può e deve organizzarsi una nuova stagione in cui gli umani si riconoscano nella loro unicità di consumatori ed esigano che l’incessante produzione di valore generata dal consumo sul web sia riconosciuta e retribuita.