Erano gli attori del cinema di tutti i giorni : quello che, in sala, negli anni 60, si poteva vedere e rivedere dappertutto, dal pomeriggio a sera, alle prime visioni in città, alle ultime, mesi dopo, in provincia. Erano gli attori di casa, che sentivamo più vicini e fedeli. Italiani  in tutto e per tutto, anche nella voce : doppiata. Belmondo nella Viaccia o nella Ciociara. Delon in Rocco e i suoi fratelli e nel Gattopardo. Trintignant nel Sorpasso, Sorel in Vaghe stelle dell’orsa. Quasi sempre in B/N, tutti giovani, fascinosi, un poco melanconici, tutti indistintamente ‘nostri’. Attori italiani. Ma francesi. Di quella stagione miracolosa d’un cinema gemello – che con Noiret, Piccoli e Depardieu ha avuto un breve, secondo guizzo, già anni 70 – Jacques Perrin, 76 anni appena compiuti (il 13 luglio), deb da noi nel 1960 a 19 anni in La ragazza con la valigia, è forse il rappresentante più tipico. Anche il più indipendente, capace di crearsi, fin dalla prima esperienza di produttore (Z di Costa Gavras, Oscar 1969), un’originale identità cinematografica di produttore-regista di straordinari documentari sulla natura, da Microcosmos (1996) a Les Saisons (2016).

Il suo impegno ambientalista s’è fatto in 30 anni sempre più appassionato e premonitore, ispirando direttamente o idealmente nuovi film o intere cine-rassegne. Paiono sue ‘filiazioni’ Odyssée, su Jacques-Yves Cousteau e l’engagement ecologico sul finire della sua vita, anteprima-evento dell’Aqua Film Festival diretto con passione da Eleonora Vallone all’Isola d’Elba, e, anche, il SiciliAmbiente Documentary Film Festival che, alla nona edizione dal 18 al 23 luglio nell’oasi marina di San Vito Lo Capo, porterà avanti il tentativo di promuovere una cultura della sostenibilità, con le quattro sezioni competitive (doc, corti, animazioni, ‘Byke Shorts’), tenendo a battesimo, insieme a Amnesty International, il premio ‘Diritti umani’ sul problema-migranti.

Avvolto da una sempre più diffusa sensibilità ambientalista, Perrin, capelli bianchi e sorriso d’adolescente, è stato ospite applaudito al Bif&st di Bari, che l’ha festeggiato come attore e produttore, rendendolo protagonista della nuova sezione ‘Scienza & cinema’, dove sfolgorava L’Empire du Milieu du Sud, sconvolgente documentario sul Vietnam, prodotto e ‘narrato’ da Perrin nel 2008.

Qual è il segreto, Jacques Perrin, dell’impressionante rigore di questo e degli altri suoi doc?

« Prima di girare, mi confronto ogni volta con gli scienziati : che non conoscono però il piacere del contatto diretto con la natura. Sanno ma non vedono. I nostri documentari fanno vedere. Non c’è voce off, non c’è commento. Ogni spettatore vede e percepisce secondo la sua sensibilità. Non siamo qui per far da guide pedagogiche : prendiamo semplicemente per mano lo spettatore per iniziarlo, come Alice nel Paese delle Meraviglie, allo stupore della scoperta di altri mondi. È un procedimento precipuamente cinematografico : all’opposto d’un doc tv, dove si spiega al telespettatore il come e il perché ».

Film non didattici ma d’esplorazione, d’immersione ogni volta in nuovi misteri ?

« Il cinema è fatto per trasportarci in un altrove. Tutti nutriamo sogni d’altrove : sono la nostra spinta in avanti, nella vita e nel cinema, che per me fa parte della vita. È bello, è vitale entrare in una nuova dimensione. Ciò detto, l’altrove può essere a pochi passi da noi, sotto le nostre scarpe. Microcosmos è la dimostrazione che non occorre andare in Africa per trovarsi al cuore di faune e flore incredibili. Basta alzare il piede e osservare da vicino ‘il popolo dell’erba’ : l’umilissimo verme che con i suoi scavi quotidiani fa respirare la terra, lo stelo d’erba che vacilla sotto una goccia d’acqua, con brividi da Vertigo. Basta aprire gli occhi, guardare con altri occhi, da altri punti di vista, sollevandoci per esempio da terra, dalla città che ci accerchia, per contemplare tutto da altezze superiori al nostro 1.70 di statura. Le peuple migrateur, girato in 4 anni in 40 Paesi, ci fa scoprire il pianeta dove viviamo nell’ottica degli uccelli migratori. È questa la conoscenza d’un altrove che m’interessa : va molto oltre il semplice gusto di catturare immagini esotiche ».

Ogni film è dunque un’avventura nuova non solo per chi lo vede ma già per chi lo fa ?

« Produrre è sempre stato per me un modo di scoprire qualcosa che non conosco. Non ho fatto l’università : i miei film sono la mia università. Producendo, continuo a imparare, a studiare : la vita degli animali o un campo di fiori sono un’infinita materia di studio. Tra i molti progetti cui mi sto applicando, c’è ora un film sulle nuvole. Ma anche uno sugli indiani d’America, in via d’estinzione, ridotti da cento a due milioni. Il cinema deve avvicinarsi all’invisibile, a quanto è sconosciuto o sta scomparendo. Deve diventare l’immagine vivente di ogni ‘altro’. Senza la differenza degli altri non potremmo vivere. Gli altri sono la nostra continuità ».

Un appello, ecologico e politico, contro le chiusure a riccio, i muri d’ostacolo agli attuali ‘popoli migratori’ ?

« È letale per tutti quanti, non solo per gli Usa, la politica di Trump, che si nega a una collaborazione ambientalista e trivella il pianeta con i pozzi di petrolio. Ci sarebbe da insorgere.  Con i documentari sono automaticamente coinvolto nelle problematiche sociali e ambientali. Che cosa sta divenendo il pianeta ? Nessun politico tien conto degli allarmi degli scienziati. Fino a ieri nessuno ne parlava. E intanto i danni crescono a dismisura. Le peuple singe, girato in Indonesia, è di 30 anni fa : se vi torno oggi, trovo la foresta ridotta a metà. Niente più alberi e animali che prima la popolavano. Da giovane, con un peschereccio giravo il Mediterraneo, approdavo in Sardegna : dove oggi la vegetazione è totalmente diversa, la fauna è diminuita, sparisce ».

Da giovane, l’Italia era stata anche la sua patria cinematografica.

« È stata fondamentale per la mia formazione e la conoscenza del cinema. Ho condiviso il set con attrici come Claudia Cardinale, anche lei giovanissima, con attori come Gassman e Mastroianni, che avevano la grandezza della semplicità. Ero anche diventato amico del vostro grande direttore della fotografia Luciano Tovoli. Tra i registi, mi son subito legato a Valerio Zurlini, che mi ha lanciato in La ragazza con la valigia e in Cronaca familiare. Sono io che, da produttore, l’ho scelto per Il Deserto dei Tartari, cui aspiravano in tanti, da Antonioni a Sautet. Zurlini era capace di imprimere il sentimento ai giri di macchina, di farvi affiorare i movimenti  dell’anima ».

Quale dei suoi 14 film italiani le è più caro ?

« Forse Il Deserto dei Tartari. Zurlini era malato, stanco. Era più che mai dentro la storia raccontata da un Dino Buzzati ‘kafkiano’ : l’attesa, romantica, infinita, infinitamente frustrata, del grande combattimento con i Tartari, che diventa l’attesa della morte. Il giorno agognato arriva, ma tardi : in tutti quegli anni trascorsi nel chiuso della fortezza, i giovani soldati hanno perso la gioventù, hanno perso la vita »

C’è un rapporto tra la sua prima produzione, Z, e i suoi documentari sulla natura ?

« Sono tutti film utili : cioè, politici.  Himalaya, Océans … i miei sguardi sul mondo sono altrettanti Z, tesi alla conoscenza, alla presa di coscienza. Il cinema è un’arma che può far paura. È ogni volta un atto di forza, sostenuto dalla tenacia, anche dai soldi. Ancor oggi, conosco meglio i corridoi della banca che quelli della natura… »