La ricezione del classico si può declinare in molti modi, come ha dimostrato lo speciale di «Alias» dello scorso 9 agosto, intitolato significativamente Opera aperta. Michał Jackowski (Białystok 1978) è uno degli artisti visuali maggiormente impegnati su questo fronte. Le sue sculture – che sono state esposte, oltre che nella sua Polonia, negli Stati Uniti, in Svizzera, e in Italia – contaminano sapientemente il linguaggio formale della cultura greco-romana con il pop. Ma la sua non è una banale, bensì una meditata reinterpretazione dell’antico in chiave postmoderna, come risulta da questa intervista che ha voluto rilasciarci.

La sua opera affonda le radici nell’arte classica. Perché questa è così importante per lei?
Penso che noi tutti siamo legati all’arte classica come alberi alla terra, e senza le proprie radici è difficile essere stabili. Il classico va oltre il tempo, è un codice universale che consente di avere un dialogo con se stessi, con l’umanità, ed è proprio questo dialogo che mi interessa particolarmente.

Qual è il suo rapporto personale con la scultura antica? Dove e quando l’ha studiata?
Amo l’antichità, anche se è difficile descrivere quest’amore con le parole. Penso che tale sentimento sia nato in me quando studiavo restauro della scultura all’Accademia delle Belle Arti di Varsavia. Il restauratore conosce l’opera d’arte come il padre conosce il figlio, si sforza di comprendere, proteggere e ripristinare ciò che è danneggiato, sempre rispettando l’originale. Dal primo anno, fino agli studi postlaurea, ho lavorato con reperti di musei, molto spesso dell’antichità. Inoltre, ho viaggiato molto e ciò mi ha permesso di entrare in contatto con molti altri reperti antichi nel loro contesto. L’avere vissuto l’esperienza di questa lingua universale, da Roma a Istanbul, al Cairo, ad Alessandria d’Egitto, mi ha reso evidente l’universalità di questo codice. Allo stesso tempo, volgendo lo sguardo sia verso il passato che verso il futuro, ne ho compreso l’immanenza nel tempo.

Come può l’arte classica esprimere la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo?
I modelli classici possiedono una carica millenaria che unisce in un’unica forma storie, morale ed emozioni. Attraverso l’adattamento e la commistione, posso creare una narrazione contemporanea, ponendo questioni relative al qui e ora. Posso «giocare», utilizzando codici universalmente comprensibili. Per esempio, l’antica mitologia è ancora idonea a interpretare la realtà attuale. Questa lingua senza tempo si presta paradossalmente anche a esprimere i miti contemporanei della nostra società dei consumi.

Lei associa i valori estetici con quelli etici?
No, secondo me l’estetica e l’etica non sono connesse in alcun modo. Tuttavia, l’estetica può evocare ed essere associata ad emozioni piacevoli o meno. Queste ultime hanno, poi, molto spesso, un’influenza sulle nostre reazioni e scelte etiche. In questo senso, l’estetica può apparire come uno strumento. L’artista sceglie i valori estetici, ma il loro impatto sulla sfera etica dell’osservatore è una questione complessa. La creazione di semplici associazioni di codici, come «brutto = male», «bello = bene», ha poco a che vedere con il vero. Nella mia arte, una bella forma è spesso utilizzata come un’«esca estetica», che dissimula un amo di dilemmi etici.

Definirebbe la sua arte come neoclassica o postmoderna?
Penso di essere un artista postmoderno-neoclassico. Da un lato, sicuramente con stile postmoderno, «gioco» con le forme antiche, sovrapponendole a quelle del nostro secolo. Dall’altro, sotto forme che attraggono, si nascondono domande che tendono alla ricerca di una verità obiettiva, il che è più vicino all’idea neoclassica. La tensione tra la soddisfazione estetica e la spesso difficile moralità, l’unione della tecnica con gli altri elementi del gioco e del pastiche dimostrano che sono sospeso tra neoclassicismo e postmodernismo.

Come combina classico e pop?
L’unione del classico con la pop art mi consente di mantenere il collegamento tra simboli e significati vecchi e contemporanei. Ci fa essere, qui e ora, consapevoli della linea di continuità e della connessione con il passato. Mi riferisco spesso agli schemi dell’antichità, come ad esempio il volto di Afrodite, la dea della bellezza, i torsi nudi e il volto di Apollo e li giustappongo alla simbologia contemporanea, per ottenere un significato nuovo e porre domande sui valori universali. Sia i simboli antichi, sia quelli moderni non perdono il loro significato, ma, piuttosto, uniscono le loro cariche: nelle mie opere appaiono fumetti, banconote da un dollaro, oro, gomme da masticare, citazioni di testi di icone della musica come i Rolling Stones o i Beatles, panini fatti con la testa di Venere al posto del pane, ecc. Quindi, sono ispirato da forme antiche e da artisti come Roy Lichtenstein, Salvador Dalí, Rene Magritte o Claes Oldenburg. Queste commistioni artistiche portano con sé una nuova carica riflessiva, mi consentono di approfondire la mia ricerca interiore. Sono come uno specchio in cui guardo quando ricerco la mia condizione etica.

Quanto conta per lei il medium materiale?
Il materiale è importante per me quanto il simbolo che rappresenta. Il materiale rafforza il messaggio. Dopotutto, la rappresentazione di una testa antica è più autentica in marmo anziché in gesso. La semplice consapevolezza di essere in contatto con materiali nobili dà soddisfazione estetica, e lo scolpire il marmo non può essere paragonato alla lavorazione di una scultura in resina. C’è una sorta di battaglia con la natura, nel processo creativo, soprattutto quando la lavorazione è fatta in pietra o in bronzo e l’energia di questo processo è emotivamente palpabile per l’osservatore.

In che cosa la sua arte è diversa da quella di altri artisti che traggono ispirazione dalle forme antiche, come Mitoraj o Paolini?
Ci sono molte differenze. Penso che Mitoraj sia stato come un poeta-archeologo che ha guardato al passato. Io utilizzo elementi dell’antichità per guardare avanti, ponendo interrogativi sull’oggi e sul domani. Per me, che unisco l’antico e il pop, l’antichità è come la lingua inglese; per Mitoraj era come il latino nobile. Egli è rimasto nel mondo degli eroi. Invece, io guardo alle forme antiche come incarnazione degli uomini comuni. Nell’arte di Mitoraj i torsi sono bellezza mutilata. Nelle mie opere rappresentano invece la perdita dell’illusione del corpo: li spoglio sempre dei volti e delle caratteristiche individuali. Le opere di Mitoraj sono come poesie romantiche. Vorrei, invece, che la mia arte fosse percepita come un dialogo pungente. Paolini mi è più vicino nel suo modo di usare i modelli antichi già pronti. Tuttavia, nella sua arte, vengono usati più come dei «ready made». Egli non utilizza materiali preziosi, non scolpisce le sue forme, usa i calchi e li moltiplica. Per me, l’individualità di un’opera realizzata in un materiale nobile è fondamentale: il processo di creazione e di infusione dell’energia nel materiale naturale costituisce un valore che si aggiunge all’opera. Ognuno di noi usa quanto viene dall’antichità in modo diverso per creare i propri mondi.