Autore dei più duri e profondi film che raccontano la recente storia cilena, da Tony Manero a Post Mortem a El Club fino all’ultimo Neruda, Pablo Larrain si aggiunge con Jackie ai registi latinoamericani di successo approdati a Hollywood, come i messicani Alejandro Iñárritu, Cuaron, Guillermo Del Toro. Una scelta quella di Larrain che crea curiosità perché il suo è un linguaggio poco disponibile alle concessioni e i suoi film hanno preso quasi sempre forma grazie all’interpretazione di Alfredo Castro che interpreta il lato oscuro del paese nei tempi bui. Sembrava anomala anche la scelta del soggetto del film (Jacqueline Kennedy), così legata alle pagine patinate delle riviste, agli scandali che hanno segnato i Kennedy, ai panfili mediterranei.

Jackie invece (coproduzione Usa con Cile e Francia) rivela ancora una volta la perfezione dello stile di Pablo Larrain che procede nel costruire un film implacabile, di lettura non certo diretta né illustrativa, tanti sono i sottotesti suggeriti, i riferimenti a tutta la vasta letteratura, i reportage televisivi in diretta, i film che sono stati realizzati negli Usa. Lo stile di Larrain non assomiglia a nessun altro, sta nello spettatore servirsi delle sue conoscenze per allargare lo stile del suo racconto piuttosto scarno nell’azione, generoso nei dialoghi ed esplosivo nelle allusioni.

Pablo Larrain si muove perfettamente a suo agio nei saloni e nel cerimoniale della Casa Bianca. Lui l’alta società la conosce bene, la sua famiglia conta esponenti di governo e di potere, ne manovra bene i meccanismi e le movenze, certo gli sarà stato facile dirigere Natalie Portman che interpreta la First Lady, intuirne i gesti, l’incedere, il tono di deciso, di tagliente comando sotto una fragilità del tutto apparente.

La Jackie del film non è più una First Lady, si raccontano i giorni successivi all’omicidio del presidente, una elaborazione del lutto accompagnata dai doveri formali che lei vuole rendere il più possibile memorabili, dai rapporti con la stampa dove controllare ogni singola parola per costruire una immagine perfetta: Jacqueline Lee Bouvier che nasceva anche lei come John da una famiglia dell’alta borghesia, laureata in belle arti, era stata giornalista , conosceva i segreti del mestiere oltre che del potere. Ogni gesto, ogni parola con ferrea determinazione deve essere indirizzata a dare ultimi tocchi della costruzione di un mito.

Così tesse nell’immaginario il collegamento tra il marito e Lincoln altro celebre presidente nordamericano assassinato. In un famoso reportage televisivo mostrava le trasformazioni da lei apportate alla Casa Bianca, resa un luogo di cultura per i concerti e le opere d’arte, e dove mettere in evidenza ritratti e mobilio dell’uomo politico che vinse la guerra civile e abolì la schiavitù. Jfk fu presidente per soli due anni, il fratello Bob che ne seguirà la sorte, si rammarica che in un periodo così breve John non avesse potuto compiere niente di così fondamentale come risolvere la questione dei diritti civili, incrementare la ricerca spaziale e soprattutto risolvere la guerra del Vietnam. Se ne occuperà con diversa prospettiva Johnson vicepresidente e quindi presidente in carica che freme per fare il suo discorso presidenziale nella stanza Ovale quando si stanno ancora organizzando i funerali.
In occasione del giuramento Jackie indosserà ancora una volta il tailleur rosa Chanel macchiato di sangue pronunciando la frase riportata nelle sue biografie «voglio che vedano bene cosa hanno fatto a John».

Il film procede su diversi piani di racconto, tra l’intimità delle stanze private e l’accurata preparazione delle pubbliche celebrazioni, senza arretrare di un passo rispetto alle richieste su opportune misure di sicurezza. Tra l’irrompere della cronaca sugli apparecchi tv che mostrano l’arresto e la morte di Oswald, tra i dialoghi con l’intervistatore o con il prete (e il primo per lei ha la precedenza sul secondo, ma nel serrato dialogo a base di temi teologici John Hurt esprime tutta la sua sapiente arguzia).

Quando parla con la stampa arriva a rendere parabola anche le fitte al cuore («a volte, racconta, andava nel deserto per lasciare che il diavolo lo tentasse, ma poi tornava sempre dalla sua famiglia», un’allusione che poi deflagra con la festa di compleanno del figlio John quando nel porgere la torta con le candeline canta con voce misurata un «Happy Birthtday to you» che non può sfuggire).

E, sottotesto veramente nascosto ma non per questo meno presente, scorre nelle pieghe del film la morte di un altro presidente, quello del paese del regista, con tutti i misteri che la circondano, con una mitologia altrettanto possente, ma in più la certezza dei mandanti. Pablo Larrain dice che oltre le informazioni ufficiali, i rapporti e i libri, le registrazioni sonore e visive, tante cose accadono dietro le porte a cui ha cercato di dare una dimensione credibile: «Credo che Jackie fosse una miscela di presenza pubblica e di mistero. L’obiettivo del film è costringere il pubblico a completarlo. Non abbiamo seguito una logica temporale, entriamo nel mondo di una persona che è in una crisi profonda, nei sentimenti contrastanti di una donna diventata un simbolo, madre e moglie tradita. In qualche modo ha creato un’illusione di sangue reale che prima il popolo americano non aveva, sembrava una regina senza trono. Fin dal primo giorno ho chiesto a Natalie di avvicinarsi alla camera sempre di più, sempre di più: era quello il film».