Fino al 16 luglio del 2011 quel posto è stato solo il luogo adibito al parcheggio delle biciclette: una rastrelliera, quattro pali, una tettoia in ondulina. Da quel giorno è qualcosa (molto) di più. È diventato un luogo simbolo delle lotte operaie per la difesa del proprio posto di lavoro: il presidio permanente dei lavoratori della Jabil.

Cassina de’ Pecchi, periferia orientale di Milano, lungo la strada padana superiore, esattamente al chilometro 158. Un’area industriale enorme, dove per decenni migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno reso famosa la zona, grazie alla loro competenza, per essere il fulcro dell’eccellenza dell’hi-tech italiano.

Quella che per bocca dell’ex presidente di Regione Lombardia, Roberto Formigoni, doveva diventare la silicon valley nostrana. In quella zona, nel giro di pochi chilometri quadrati, ci sono le più grandi fabbriche di telefonia e information technology del nostro paese: Ibm, Alcatel-Lucent, Nokia-Siemens, Jabil. Peccato che alle parole della politica non siano mai seguiti i fatti, e oggi ci si ritrova con licenziamenti, delocalizzazioni, esuberi.

Anche alla Jabil sarebbe dovuto essere così, se non fosse che i lavoratori hanno detto di no. No a un padrone che, nel giro degli anni, ha inseguito solo il profitto fregandosene dei propri lavoratori e delle loro famiglie. No ai licenziamenti inviati via fax, senza nemmeno il coraggio di guardare in faccia i delegati sindacali. No alla perdita di una fabbrica che per chi ci ha lavorato ha rappresentato un bene comune per tutta la comunità e che rischiava di essere mandata allo sfascio solo per l’ingordigia di inetti padroni.

All’annuncio da parte dell’azienda che vogliono portare via i macchinari, almeno una parte, e pezzi semilavorati, è partita l’idea del presidio permanente. Si sono piazzati lì, proprio ai bordi della strada padana superiore. All’inizio era un capannello di persone, nulla più. Poi le bandiere dei sindacati hanno iniziato a sventolare lungo la strada. Da quel giorno, gli automobilisti che passano e vogliono dare un segno della loro solidarietà ai lavoratori in lotta, suonano il clacson. Qualcuno che risponde c’è sempre.

Da due anni quel posto è abitato, giorno e notte, ventiquattro ore su ventiquattro, da qualcuno che ne ha fatta la sua seconda casa, la sua ragione di lotta, di vita. Si sono organizzati coi turni: mattino, pomeriggio, notte. Hanno costruito una piccola casa, con l’angolo cucina, dei divani, un tavolo. Scrivania e computer. Alle pareti, i tanti articoli di giornale che parlano di loro e della loro lotta. Uno striscione, ormai ingrigito dallo smog e dalle intemperie, riassume così la vicenda: «Jabil killer, Nokia-Siemens mandante: 325 licenziamenti».

In due anni hanno dovuto occupare gli uffici regionali per essere ricevuti dall’assessore al lavoro. Hanno organizzato manifestazioni a Roma, davanti al ministero; bloccato la strada e fatto cortei nel centro del paese, restando per ore anche all’interno del municipio. Hanno resistito a diversi tentativi di sgombero: il più feroce, il 27 luglio del 2012 quando, poco prima dell’alba, trecento tra carabinieri e poliziotti in tenuta antisommossa sono arrivati davanti ai cancelli per permettere alla proprietà di portare via i macchinari all’interno della fabbrica. I tir che dovevano caricare la merce se ne sono dovuti andare via vuoti, grazie alla tenace resistenza dei lavoratori e dei tanti cittadini che erano accorsi in loro aiuto.
In questi 24 mesi di resistenza hanno ottenuto dei risultati, solo con le proprie forze: sono riusciti a mantenere l’area dove sorge la fabbrica a uso industriale, evitando che il piano di governo del territorio di Cassina ne cambiasse la destinazione. Hanno ottenuto dal nuovo amministratore delegato di Jabil la proprietà dei macchinari.

Infine, hanno iniziato trattative con un imprenditore, che potrebbe rilevare la fabbrica. Sarebbe una gran vittoria, segno che la lotta paga. Comunque vada a finire (si spera bene) al presidio ti rispondono tutti così: «Non abbiamo nulla da rimpiangere: tutto quello che andava fatto lo abbiamo fatto, da soli, con le nostre forze. Bisogna crederci. E provarci».