Una inspiegabile trasformazione ha portato J. M. Coetzee a passare da un esordio e poi da una maturità letteraria più apprezzata dalla critica che dai lettori (anche dai meglio strumentati) a intrecci destinati a un pubblico presumibilmente più largo, il che è, per l’editoria (ma solo per l’editoria) un’ottima notizia; almeno da quando la condizione imposta dagli agenti per guadagnare al proprio catalogo gli autori più importanti è abdicare alla scelta dei singoli titoli e acquisirli in blocco.

Quel senso di irrealtà, di inconfortevole mistero, di desolazione sentimentale che aveva connotato Aspettando i barbari – il grande romanzo del 1980, affidato alla voce narrante di un magistrato che vive in un avamposto sul nulla lambito dal deserto, un imprecisato Impero sul quale incombe la minaccia di una offensiva degli antichi abitanti del luogo – si è convertito nella adesione di Coetzee a una molto diversa forma di straniamento dalla realtà.

Infanzia e giovinezza
Dopo diverse tappe in forma di romanzi a volte francamente metaletterari, che rendevano via via più deboli gli echi allegorici della sua doppia appartenenza al Sudafrica dell’apartheid, in cui è nato, e all’Australia dello sterminio degli aborigeni, in cui si è trasferìto, l’approdo di Coetzee è ora a una sorta di trascrizione romanzesca di elementi tratti dai Vangeli apocrifi, dove si raccontano l’infanzia e la prima giovinezza di Gesù.

Anche la prosa quasi disidratata, comunque inospitale di ogni sentimento, che prima del Nobel, assegnato nel 2003, era valsa allo scrittore un doppio Booker Prize, per La vita e il tempo di Michael K, poi per Vergogna, ha ceduto alla più addomesticata narratività della svolta segnata, appunto, dal primo titolo della trilogia, inaugurata nel 2013 con L’infanzia di Gesù, ancora un romanzo di grande qualità inventiva e stilistica, proseguita nel 2016 con I giorni di scuola di Gesù, e terminata ora con La morte di Gesù (in uscita martedì per Einaudi, come già gli altri titoli tradotto da Maria Baiocchi, pp. 177, € 18,00).

Solo qualche didascalico rinvio ai precedenti romanzi della trilogia permette di ricostruire il passato del bambino protagonista, il cui nome è David, che ha ora dieci anni e ne aveva cinque al tempo della sua prima comparsa. Allora, Coetzee lo aveva descritto come proveniente da una peregrinazione durante la quale aveva perso il cartellino che presumibilmente portava i suoi dati anagrafici, e era stato in qualche modo adottato da un altro profugo di nome Símon.

Nella città di Novilla
Insieme, i due erano arrivati nella fantasmatica città di Novilla, i cui abitanti avevano inesorabilmente accettato la desolazione del proprio destino, tanto da rendere loro sgradito ogni accenno al passato e a trascorsi legami sentimentali, che non desideravano ricordare né rinnovare.
Già nel primo romanzo, il carattere dispoticamente ribelle di quel bambino che Coetzee faceva parlare come un novello Gesù, aveva dato notevoli grattacapi al buon uomo messo dalla provvidenza sulla sua strada: il povero Símon non soltanto si era premurato di educare il piccolo ribelle ma si era proposto di ritrovarne la madre, pretendendo di individuarla allo scoccare di chissà quale scintilla nello sguardo del bambino. Una donna, in effetti, a dispetto del fatto che nessun bagliore si fosse mai acceso negli occhi del piccolo David, era stata finalmente eletta da Símon a madre deputata, e lei incredibilmente si era prestata a questa sorta di mondana annunciazione, benché il suo carattere capriccioso e viziato la rendesse la più improbabile delle possibili madonne.

Fin qui, l’abilità letteraria di Coetzee aveva retto egregiamente il gioco, regalando al lettore passaggi di magistrale adesione della prosa alla mentalità del piccolo tiranno, intervallati da bellissimi dialoghi in cui Símon oscillava tra la cieca fede nei propri istinti e la ricerca di una ratio superiore; ma già quando il terzetto si era inoltrato nella seconda tappa della trilogia, le gesta di questo terragno Gesù di nome Davide stentavano a risultare coinvolgenti.

Costretti a scappare dalle autorità che minacciavano di identificarli e espellerli, madre e padre putativi erano approdati insieme al bambino a una nuova e altrettanto fantasmatica cittadina di nome Estrella, dove David era rapidamente diventato la star della scuola di ballo del signor Arroyo, sotto la cui tutela pretendeva ora di passare, mentre l’arroganza si installava nel suo animo e si faceva sempre più esplicita l’ingratitudine per i genitori adottivi.

Un canto profetico
Grande amico di David sarebbe diventato Dmitri, il custode della scuola di ballo, verboso personaggio che essendosi invaghito della moglie del direttore Arroyo, aveva convertito in incubo il suo sogno d’amore, e con dita esageratamente passionali aveva stretto il collo di lei fino a farla morire. Già allora protagonista dei migliori dialoghi inventati da Coetzee, Dmitri ricompare nell’ultimo romanzo, quando dopo avere scontato parte della sua pena viene assegnato alla pulizia dei bagni nell’ospedale dove David verrà ricoverato, in seguito alla neuropatia che lo colpisce e alla quale soccomberà: l’epilogo è già nel titolo, La morte di Gesù.

Una anticipazione del destino cui il piccolo sarebbe andato incontro sta nelle primissime pagine, quando David intona un Lied, In diesem Wetter, in diesem Braus,/ Nie hätt’ ich gesendet die Kinder hinaus, che non ricorda dove e quando abbia imparato e al quale nessuno dei suoi ascoltatori sa dare un nome: una «canzone misteriosa» che alcuni ipotizzano sia un ricordo della sua vita passata, quando prima di trasformarsi in profugo aveva veri genitori e abitava chissà dove, e altri suggeriscono gli arrivi in forma di profezia: «come se tu ricordassi il futuro»; Coetzee, intanto, si guarda bene dal rivelare, seppure in nota, che i versi intonati da David provengono dai Kindertotenlieder di Mahler, e dunque ne annunciano la fine prematura.

Come già nel precedente romanzo, anche qui, prima di venire colpito dalla malattia, il pestifero David aveva ripudiato i poveri genitori adottivi consegnandosi alle cure del direttore di un orfanotrofio, che lo aveva ingaggiato nella sua squadra di calcio: «Io voglio essere uno che vince. Voglio vincere a tutti i costi», gli fa dire un Coetzee fattosi improvvidamente didascalico, mentre riassume, qua e là, in rapidi accenni, qualcosa della vita passata del bambino, che non è mai andato a scuola e ha imparato a leggere sul Don Chisciotte, arringa i devoti genitori adottivi, rinnova la sua predilezione per l’assassino Dmitri, e divide «la gente tra quelli adatti a ricevere il suo messaggio e gli altri».

Quale sia questo diabolico messaggio per fortuna Coetzee non lo rivela, ma prima di consegnare la reincarnazione del suo Gesù alla fine che lo attende, allestisce una trama di cui Alex Preston sul Guardian ha scritto: sembra «uno scherzo elaborato dall’autore alle spese degli esegeti impegnati nel compito di traslare il suo lavoro». Se così fosse, il disprezzo dello scrittore per i propri lettori avrebbe toccato, si spera, il suo vertice; o forse, invece, è questo il frutto più esasperato di una insoddisfazione che Coetzee aveva, nel terzo movimento di quella che ha chiamato la sua autre-biography, spietatamente sintetizzato identificandosi con un «doppio», che già a tredici anni avrebbe voluto «togliersi di dosso il suo Io».

Diventato scrittore, a dispetto del Nobel già ricevuto, il personaggio in cui Coetzee proietta se stesso si dichiara privo di qualsivoglia «intuizione originale sulla condizione umana», professandosi, per di più, incapace di «forzare il mezzo espressivo». «Troppo freddo – chiosa – troppo pulito… troppo poca passione». Tornare oggi a queste parole di Coetzee è forse il tramite migliore per farsene riconquistare.