Quando rientrò in Europa dalla Rhodesia, lasciando dietro di sé un marito violento e un figlio piccolo che da quel 1944 non l’avrebbe mai perdonata, Muriel Spark non era ancora una scrittrice. Aveva trentaquattro anni, molta voglia di vivere ma nessuna idea di come ci sarebbe riuscita. Invece di tornare a Edimburgo dai suoi, si diresse a Londra perché voleva vedere la guerra da vicino. Trovò alloggio in una pensione per giovani di buona famiglia però di pochi mezzi a Bayswater. Si iscrisse alla biblioteca di quartiere e si mise in cerca di un lavoro. Tra i libri presi in prestito portò con sé all’ufficio di collocamento l’ultimo romanzo di un’autrice che aveva scoperto in Africa: sapeva che la fila sarebbe stata lunga, certo non poteva immaginare che una volta arrivato il suo turno avrebbe trovato dall’altra parte della scrivania una lettrice di Ivy Compton-Burnett appassionata quanto lei. Il colloquio di lavoro si trasformò in una conversazione letteraria sul talento sorprendente di Miss Compton-Burnett. Alla fine le due interlocutrici convennero che stavano parlando di una delle più grandi scrittrici inglesi viventi. Quando si alzò, Muriel Spark non era ormai una disoccupata, ma un’impiegata dei servizi segreti del Foreign Office. La ragazza che divideva la camera con lei non volle credere che fosse stata soltanto la fortuna.
Chissà se Muriel Spark sapeva che la sua narratrice preferita abitava non troppo lontano da lei, proprio al lato opposto di Kensington Gardens, una passeggiata di nemmeno mezz’ora costeggiando il Round Pond. Forse le sarebbe piaciuto poterla ringraziare per averle fatto ottenere un lavoro tanto interessante. Certo, se anche fosse riuscita a scovare l’appartamento che Compton-Burnett divideva da un decennio con la compagna Margaret Jourdain, una allora celebre studiosa di mobili antichi, difficilmente le sarebbe stato concesso di oltrepassarne la soglia. Dopo la fine dell’altra guerra, miracolosamente sopravvissuta alla spagnola, Ivy Compton-Burnett si era reclusa in una sorta di isolamento volontario, occultando agli occhi del mondo il suo passato e anche la propria persona. I pochi a cui era permesso di incontrarla rimanevano stupefatti da quel suo aspetto scolorito, spiazzati dalla conversazione in apparenza vuota e superficiale, comunque sfuggente. Si trovavano davanti una spenta governante vittoriana mentre avevano pensato di vedere la scrittrice innovativa e ribelle, anticonformista, irriverente, scandalosa che respirava nei suoi libri. È tuttavia probabile che la storia della ragazza Spark, se solo avesse potuto ascoltarla, sarebbe piaciuta immensamente alla narratrice sessantenne, in quel periodo all’apice del successo. Lei d’altra parte se ne intendeva di segreti e intrighi e capricci del destino. Anche di misfatti famigliari.
Quando nacque, nel 1884 a Pinner, non erano passati nemmeno due anni dalla morte di parto della prima moglie del padre, un medico omeopata: la relazione con sua madre era iniziata prima di quella morte, il matrimonio fu immediato. Ai cinque fratellastri si aggiunsero presto quattro sorelle e due fratelli. Il padre trasferì la famiglia in una grande casa a Hove, sulla costa del Sussex, dove tornava solo nel week-end; in quella solitudine affollata di bambini la madre si abbandonò alla depressione, divenne fredda, dispotica, inaccessibile. Educata da un’istitutrice, Ivy continuò gli studi al Royal Holloway College laureandosi in materie letterarie. Aveva sedici anni quando il padre morì di infarto, venti quando a Cambridge morì di polmonite il fratello più amato, venticinque quando un tumore si portò via anche la madre lasciandola a capo di una famiglia dimidiata e confusa. L’altro fratello cadrà nel 1916 durante la battaglia della Somme, alla fine di quell’anno le due sorelle minori decideranno di suicidarsi insieme con il veronal chiudendosi a chiave dentro la loro camera da letto. Lei nel 1911 aveva pubblicato la sua opera d’esordio, l’autobiografico Dolores. La malattia del ’18 fu una riga tirata sul passato e su quel libro. Sette anni più tardi, quando firmò il successivo Padroni e maestri, era già la straordinaria narratrice di cui oltre a Muriel Spark si sarebbero poi innamorate Mary McCarthy, Nathalie Sarraute, Natalia Ginzburg: una sovrana capace di regnare su tenebrose fantasie romanzesche dominandole con la sua vertiginosa, ferrea geometria espressiva. I diciotto romanzi apparsi da quell’anno con cadenza regolare fino al ’69, quando morì ormai avvolta dalla leggenda, non costituiscono che sontuose variazioni del medesimo tema declinato attraverso una stessa, radicale quanto inconfondibile scelta di stile.
Sublime marchingegno narrativo
«È proprio nelle piccole cose che si nascondono i peggiori crimini. Nessun delitto conclamato, neppure la violenza o l’assassinio, occupa un posto così grave nella gerarchia delle nefandezze umane», afferma Josephine Napier, autoritaria direttrice di un istituto per fanciulle nonché dispotica padrona dei destini altrui in More Women than Men, il romanzo apparso nel 1933 di cui è assoluta protagonista. Tradotto in italiano nel ’50 da Henry Furst e Orsola Nemi per Longanesi, ristampato nel ’74 con la prefazione di Alberto Arbasino, riproposto adesso nella nuova, purtroppo non di rado affrettata e opaca versione di Stefano Tummolini, l’impietoso Più donne che uomini (Fazi Editore «Le strade», pp. 260, € 19,00) è un sublime marchingegno narrativo, esemplare per introdurre il lettore nel mondo inimitabile di Compton-Burnett. Si dipana tra l’educandato e un paio di vetuste dimore la vicenda che lega Josephine alle sue insegnanti, a suo fratello Jonathan e al nipote Gabriel, al nuovo maestro di disegno, a una vecchia amica che irrompe nella trama per innescarne la definitiva esplosione. Su questa scena arredata con un’attrezzeria intenzionalmente fuori moda, ma abitata da maschere profondamente contemporanee, i crimini e le nefandezze abbondano. Nessuno li vede però accadono: naturalmente li predispone Josephine.
Che cosa racconta l’autrice in ogni suo romanzo? Soprattutto come lo racconta? Nient’altro che la tirannia delle relazioni famigliari, il gioco di potere instaurato nel suo claustrofobico recinto, la sopraffazione perversa, i tossici miasmi che emanano dalle stanze foderate di polverose boiserie. Incesti, sparizioni, tradimenti, furti, omicidi in realtà camuffano un orrore assai più spaventoso: la manipolazione dispotica e arbitraria dei destini. Quell’orrore Compton-Burnett può scriverlo solo se lo disincarna e lo raffredda. Quasi sprovvisti di descrizioni, mai ambientati in un esterno, i suoi libri non sono composti che da dialoghi, una successione incalzante di battute così satura di significato che la comunicazione si disperde. «Mi sconcerta una scena narrata dalla voce dell’autore piuttosto che da quella dei personaggi. Penso di seguire semplicemente la mia naturale inclinazione. Però non credo affatto che “paese di ciechi” sia la definizione giusta per il mio scenario», dichiarò nel 1945. In quel suo paese il lettore infatti ci vede perfettamente, casomai si sente soffocare mentre procede attraverso l’atmosfera luminosa ma rarefatta di quelle case prive di finestre e intricate come assurdi rompicapo. Quando esce dalla stanza in cui l’autrice l’ha inchiodato con la sua parola stregonesca, il lettore si guarda alle spalle e ricomincia a respirare. Comprende solo in quel momento di avere camminato dentro il labirinto stesso del proprio cervello. Tra i suoi sogni ma soprattutto nei suoi incubi.