Il suo esordio discografico risale esattamente a dieci anni fa: il folgorante Porta Vagnu – inciso per la Sony – votato da molti come una delle più riuscite opere del 2004. Ma il «pianista prestato alla canzone» come si è sempre schernito nelle interviste, non si è cullato sugli allori e ha continuato a definire personali mondi musicali. Mini suite melodiche che prendono in prestito elementi jazz e della tradizione melodica italiana, arricchite da suggestioni timbriche – e vocali – tipiche della scena nordica. E riuscendo persino a affacciarsi a un Sanremo (2007) senza compromettersi troppo. Quattro album dopo il trentanovenne artista palermitano torna alla ribalta con Integra inciso per un’etichetta indipendente di cui è fra i fondatori, la Bradilogo, dove dimostra di avere idee molto chiare sul futuro della musica.

Rispetto ai precedenti lavori, come spiega lui stesso, nei dieci brani confluiscono: «Le mie attitudini elettroniche. Al jazz ho accostato il funk, la contemporanea al rock e al processo di manipolazione timbrica elettronica ho aggiunto delle intere sessioni di musica concreta (musica atonale) che fluiscono all’interno del tessuto dei brani».

È chiaro – ascoltando l’album – quanto la scena elettronica di Canterbury (Tobin, Arvo Part, James Blake), abbia influito su alcune scelte: «Certamente è così. È piacevole portare dentro il proprio universo musicale quelle sonorità che si riconoscono vicine al proprio mondo di espressione. Però voglio specificare che io e gli altri musicisti (Daniele Camarda al basso e Roberto Pistolesi alla batteria, ndr) tendiamo a lavorare come band.

A Canterbury c’è una scelta musicale fatta con mega produzioni da un forte management; dietro a James Blake c’è anche Brian Eno, tanto per intenderci… Già in Chiaro (il disco del 2011) avevo inserito elementi elettronici, forse ora utilizzando sintetizzatori analogici ho virato verso quei mondi in maniera più decisa». Le mini-suite di Segreto flirtano deliziosamente con la forma canzone: «Mi è sempre piaciuto costruire pezzi poco canonici, e ora penso di avere anche un uso della voce più consapevole. La canzone è una delle forme che più facilmente riescono a creare un ponte tra chi decide di proporre un messaggio e chi decide di accoglierlo, di ascoltarlo».

Dal rapporto passato con una major (la Sony) al presente da indipendente: «Mi trovo bene, ma avendo lavorato all’estero con un’etichetta indipendente e confrontando quell’esperienza con quanto succede in Italia, mi accorgo quanto sia complicato operare qui. È difficile essere completamente autonomi da noi, perché bisogna comunque avere a che fare con una parte del sistema che deve interfacciarsi con le multinazionali».

I titoli dei brani sono tutti composti da una sola parola. Ma sono parole pesanti: Cannibale, ad esempio, è un chiaro attacco alla globalizzazione: «Non sto dicendo nulla di nuovo, è solo ribadire un concetto. Io sfrutto la visibilità che può darti un disco o una canzone per sottolineare un problema essenziale, ovvero la diseguaglianza sociale tra una parte e l’altra del pianeta. Anche se non è un cannibalismo fisico perché non ci nutriamo direttamente dei loro corpi, dei corpi degli africani e dei bambini che assemblano i computer nel Terzo Mondo, ci stiamo nutrendo delle loro braccia, del loro sudore e anche del loro lavoro pagato pochissimo.

Dovremmo ripensare al capitalismo, a come i prodotti vengono realizzati e come vengono smaltiti». Sta cambiando invece, anzi è radicalmente mutato l’universo delle sette note… «L’icona dell’artista anni ’80 è finita, bisogna rimettere al centro la musica. Le grandi produzioni fanno fatica a vendersi allo stesso prezzo perché chi si occupa di comunicazione tende a mantenere questo brand, l’esclusività di questa informazione. Ma al di là di tutto, star lì a vendersi i concerti a 10 50 100 mila euro è pura finzione, una logica che porterà il mercato di quel tipo a collassare. Quando Sting ha detto «il rock è morto» voleva ribadire che lo spirito che stava dietro al genere non esiste più. Ora bisogna solo vendere un marchio; non c’è distinzione tra Coca Cola e i Rolling Stones. È puro marketing».

Già, ma i nuovi colossi dell’industria digitale, Spotify, YouTube di pagare gli artisti il giusto compenso non ne vogliono proprio sapere: «Di musica c’è n’è tantissima, il problema è contrastare i grandi contenitori – Spotify, YouTube appunto – che vogliono pagare pochissimo i contenuti. E il contenuto più importante che viene venduto su web è la musica, che non appartiene ai colossi ma è rigorosamente di tutti. Quella dei piccoli musicisti che faticosamente realizzano progetti con le loro idee e sono tenuti sotto scacco da loro. Thom Yorke ha spiegato benissimo la situazione…».