Paolo Gentiloni appare serafico, ma per una volta l’irritazione traspare. «Non devo ricordare quando inizia e quando finisce l’autunno: è consapevolezza acquisita. Siamo ancora in estate, l’impegno che abbiamo descritto rimane», scandisce da Corfù, dopo l’incontro con Alexis Tsipras. Si parla ovviamente di ius soli, il cui ennesimo rinvio è suonato alle orecchie di molti come de profundis. La pensano così sia l’opposizione di destra, che brinda e festeggia e canta vittoria, che quella di sinistra, che piange e accusa governo e Pd di essersi abbandonati a «una pantomima ignobile», come la definisce la capogruppo di Si De Petris. Ma la pensa così, evidentemente, anche il ministro Delrio. Altrimenti non si sarebbe allargato fino a definire il rinvio «un dietrofront che è un atto di paura grave». E’ a lui più che a chiunque altro che si rivolge il premier. E’ lui l’oggetto della sua irritazione.

PARE CHE A RENZI l’affondo dell’amico Delrio non sia dispiaciuto affatto. A Gentiloni e a parecchi altri ministri è sembrato invece una pugnalata alle spalle, tanto che il colpevole ha dovuto giustificarsi con il proverbiale «sono stato male interpretato». Ma qualcosa nelle sue parole, quasi identiche a quelle di Si e Mdp, non deve essere andato giù neppure a Matteo Orfini, che interviene a sua volta con un chilometrico post su Fb: «Il gruppo Pd ha fatto non bene ma benissimo a rinviare la discussione. Portare lo ius soli in aula senza garanzia che il governo ponga la fiducia significa ammazzarlo. Quella scelta non è un atto di paura ma di buon senso. Ai ministri che chiedono di accelerare suggerisco di lavorare più rapidamente per sciogliere il nodo della fiducia».

Si chiama scaricabarile. Infatti, subito dopo aver accollato ogni responsabilità al governo, Orfini si affretta ad assolvere da ogni addebito il suo partito: «Se questa legge esiste è grazie al Pd. Se non la abbiamo ancora portata a casa è perché Fi, Lega, grillini e un pezzo della maggioranza sono contrari». Come al solito Orfini torce i fatti a suo uso, consumo e beneficio. E’ vero che oggi i centristi sono pronti non solo a negare la fiducia ma anche a fare il possibile per impedire che venga posta. Lo ha confermato anche ieri Lupi: «Orfini si metta il cuore in pace. Il consiglio dei ministri è un organo collegiale e i ministri di Ap non daranno mai l’assenso alla fiducia». Non è un grande sforzo a un soffio dalla fine della legislatura. Le cose sarebbero state ben diverse se il Pd avesse portato la legge in aula per tempo, invece di far passare due anni dall’approvazione facile della Camera. Non è andata così proprio per paura: prima quella di un effetto negativo sul referendum, poi quella di una punizione degli elettori tra il primo e il secondo turno delle ultime amministrative, ora lo spettro del voto in Sicilia al quale seguirà quello più temuto di tutti: le elezioni politiche.

A COMBINARE IL DISASTRO, checché ne dica Orfini, è stato proprio il Pd, salvo poi scaricare ogni colpa sul governo, che a sua volta declama altri princìpi subordinandoli però sempre a calcoli di bottega. Che ormai la situazione sia davvero a rischio al Senato è un fatto. Sulla carta per la fiducia mancano una trentina di voti. Però Si si è impegnata a votare una fiducia «di scopo», riducendo lo scarto. Ma ci sono decine di senatori che di fatto rispondono ormai solo a se stessi, dopo aver trasmigrato da un gruppetto nato per l’occasione all’altro, e molti potrebbero essere convinti. Però non risulta che il Pd abbia davvero adoperato tutti i mezzi a propria disposizione, dopo aver illuso per anni 800mila ragazzi nati in Italia, cresciuti in Italia, ma privi dei diritti degli italiani: se a un Alfano che ha perso ogni possibilità di riparo a destra venisse chiarito che un voto contro la fiducia equivarrebbe a perdere ogni possibilità di accordo col Pd nelle prossime elezioni, si può scommettere che molti senatori di Ap scoprirebbero di avere impegni urgenti fuori dall’aula al momento del voto di fiducia.

E’ ANCORA POSSIBILE, per quanto improbabile, che il Pd e il governo si decidano in extremis a fare sul serio, sfidando un’opinione pubblica drogata non solo dalla propaganda della destra xenofoba ma anche dal loro continuo rincorrere quella destra. La presidente Boldrini insiste. Delrio non è l’unico ministro a premere per la prova di forza. La pensa così Orlando e ieri si è schierato per «andare fino in fondo» anche Martina. Il capogruppo Zanda pensa di tentare l’ultima carta tra l’approvazione del Def, il 27 settembre, e l’avvio del dibattito sulla legge di bilancio, intorno al 25 ottobre. Ma che il Pd osi davvero, con le elezioni in Sicilia a un passo, è poco credibile. Se non lo farà avrà vinto definitivamente la paura. Per gli italiani senza cittadinanza sarà un disastro. Per il Pd pure.