Una delle distinzioni primarie che le società tradizionali riconoscono nei luoghi è quella tra sacro e profano. Per la sensibilità religiosa dei greci, questa sacralità appartiene già a certi spazi, in virtù di una loro prerogativa del tutto naturale. Il fluire del fiume e della fresca sorgente, la distesa di un prato verdeggiante e un albero ombroso sono il segno di un paesaggio abitato dalle divinità, ben prima che i loro devoti mortali vi innalzino altari e santuari. È proprio da uno di questi luoghi, la piana a sud d’Atene dove scorre l’Ilisso, celebre scenario del Fedro di Platone, che prende avvio l’itinerario sapienziale tracciato da Davide Susanetti con Il talismano di Fedro Desiderare, vedere, essere (Carocci editore, pp. 150, € 15,00), un libro che esorbita dai confini della cultura antica, imbocca la via del misticismo islamico e finisce con un inatteso approdo nella laguna veneta.

Non un semplice fondale, dunque, ma un vero e proprio campo di forze soprannaturali – le Ninfe, Pan, le Muse – si staglia nell’assolato mattino d’estate in cui Socrate e Fedro intraprendono il loro dialogo. Forze che agiscono sull’animo del maestro e che gli infondono un’eloquenza del tutto straordinaria. Il flusso di parole da cui è posseduto Socrate è una riflessione sull’eros che Susanetti ripercorre, nella prima parte del libro, con un’analisi attenta non solo a quanto esplicitamente espresso dal testo platonico, ma anche a ciò che i Dialoghi riverberano in maniera latente.

In una prospettiva meramente umana, l’amore è indicato come misero avvicendarsi di gelosie e tradimenti, di litigi e delusioni, ma questo non è che un travisamento. Il fatto è che non si può riconoscere la verità servendosi «del normale raziocinio» e della propria «mirabile intelligenza» (p. 40). Per cogliere l’essenza celeste dell’eros bisogna distogliere lo sguardo dalla realtà visibile e lasciarsi prendere dalla manía, parola con cui i greci indicavano quella forma di «follia» che deriva dagli dèi e che per Platone rinviava alla sfera erotica e a quella poetica, ma anche all’invasamento profetico e all’estasi dionisiaca.

Il fulcro del discorso socratico non riguarda solo l’eros ma anche la psyché, un’entità presente nella cultura greca fin dai poemi omerici ma che solo a partire da Platone indica l’anima nel senso che ancora oggi le attribuiamo, come essenza vitale di ogni persona. La capacità di includere in sé ma anche di trascendere i limiti della corporeità e della materia («anima è una creatura anfibia, una sostanza che unisce in sé stessa gli opposti», p. 41) risveglia nelle anime un desiderio bruciante: dopo essere cadute dall’oltrecielo nei corpi mortali – dimore che altrimenti sarebbero ciechi gusci inerti – alcune anime sentono la nostalgia di quella vita originaria e si protendono verso di essa. La realtà terrena riverbera un altrove invisibile ma che, in determinate circostanze, si lascia intravedere: quando ci troviamo davanti alla bellezza di un viso e di un corpo e ci sentiamo bruciare di passione e desiderio, è allora che abbiamo trovato un segnavia per l’immortalità. Nel mito mostrato da Socrate è grazie all’eros, infatti, che l’anima in trance dell’amante assiste all’epifania del divino e si eleva.

L’idea che nell’amore terreno si rifletta, come in uno specchio, l’amore divino ricorre nei versi mistici di uno dei più importanti maestri del sufismo, il persiano Farîd ad–Din ‘Attâr, convocato da Susanetti nella seconda parte del libro. Trait d’union con la tradizione platonica è il ruolo giocato dall’immaginazione, quella phantasía che il filosofo itinerante Apollonio di Tiana definiva come l’«artista più sapiente» perché «capace di creare quel che non ha visto» (Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, 6.19).

L’immagine più suggestiva rievocata dallo studioso proviene dal ventiduesimo discorso de Il poema celeste e riguarda una metamorfosi inedita della figura di Platone. Il filosofo vi compare nei panni di un maestro di alchimia, che dopo aver trovato la formula per tramutare il ferro in oro e averne saggiata la vanità («quel metallo prezioso aveva lo stesso valore della polvere»), si dedica per millenni alla ricerca di un elisir fatto dell’essenza stessa dell’anima e capace di trasformare la natura umana e di purificarla da tutti i bisogni del corpo. Una volta che siano state messe a tacere le necessità corporee, ecco che si ridestano le facoltà spirituali.

Si approda alla laguna veneta nella parte conclusiva del saggio, attraverso una rilettura del racconto La morte a Venezia di Thomas Mann. L’amore del protagonista, Gustav von Aschenbach, per il bellissimo «Tadziu» innesca un cortocircuito culturale, che ripropone tutto il portato simbolico dell’amore platonico. Nella contemplazione della bellezza divina dell’adolescente e nella corrente (quel flusso che Platone chiamava rhéuma o echó) che passa attraverso lo scambio degli sguardi, l’immaginazione dell’amante – preso per la prima volta da un sentimento omoerotico – si popola di presenze fantasmatiche, che trasfigurano la realtà e la riplasmano in termini mitici. Gustav si ricorda del dialogo tra Socrate e Fedro, si riconosce in quello sconvolgimento d’amore, ma fraintende il senso originale del dettato antico, fino a capovolgerlo in termini moralistici: Eros non ha il potere di guidare verso una sfera altra dell’esistenza ma sospinge, piuttosto, verso l’abisso dell’infamia.

Lo scarto tra passato e presente si compie nel segno di una concezione dell’amore che non lascia spazio alla dimensione metafisica e che resta «entro il confine ordinario di un’umana psicologia» (p. 127). Una perdita quest’ultima, rimarca Susanetti, tipica della modernità e dell’oblio di quelle tecniche che erano volte a ridestare le facoltà più recondite dell’anima.